Al Tempio Maggiore di Roma, quel 9 ottobre del 1982 non era una giornata come tutte le altre. Ad essere celebrati non erano solo lo Shabbat, ma anche la festa di Sheminì’Atzeret che segue quella di Sukkòt. Inoltre era in programma anche il bar mitzvah di alcune decine di adolescenti. Alla Sinagoga di Lungotevere de’ Cenci, dove il cuore della capitale coincide con la zona dell’antico ghetto ebraico, erano riunite più di trecento persone, famiglie intere, moltissimi i bambini.

L’ATTACCO AVVENNE alle 11,55 e durò cinque minuti, «un’eternità» nei ricordi dei testimoni. Un gruppo di cinque terroristi, che si erano in precedenza disposti per bloccare tutte le vie di fuga, lanciò almeno tre bombe a mano prima di iniziare a sparare con i mitra sulla folla riunita davanti al luogo di culto. Chi aveva preparato l’azione desiderava probabilmente compiere una strage. Quando spari ed esplosioni si arrestarono e il commando si fu dato alla fuga, davanti alla Sinagoga rimase il corpo senza vita del piccolo Stefano Gaj Taché, due anni, colpito a morte dalla scheggia di una bomba a mano, mentre altre 37 persone rimasero ferite, fra cui i genitori e il fratello della vittima, Gadiel, quattro anni, colpito alla testa e alla pancia.

Trovando in sé la forza e la determinazione per ritornare al «giorno in cui la mia vita di ragazzino felice fu distrutta per sempre», è quest’ultimo a riaprire oggi con Il silenzio che urla (Giuntina, collana «Vite», pp. 124, euro 14) quella pagina dolorosa che non smette di interrogare anche la memoria collettiva del nostro Paese. Perché il libro coraggioso che Gadiel Gaj Taché ha scritto prima di tutto per raccontare la propria storia e «ricordare mio fratello Stefano», pone quesiti scomodi ancora oggi, a quarant’anni dai fatti. Taché ha sentito che era venuto il momento di tornare a raccontare quella storia dopo che, nel 2015, di fronte agli attacchi terroristici di Parigi contro Charlie Hebdo e un supermercato kosher, «le immagini di violenza e morte avevano risvegliato le mie angosce mai sopite». Anche se con un altro volto, ricorda l’autore, «il terrorismo era tornato per l’ennesima volta a tormentare la mia vita».

La storia che racconta Il silenzio che urla parla di come la guerra del Medioriente si sia improvvisamente trasferita lungo il Tevere sconvolgendo per sempre la vita di una famiglia di ebrei romani. E contribuendo a cambiare forse per sempre il rapporto tra la più grande comunità ebraica italiana e la politica nazionale, a partire dalla sinistra.

IL CONTESTO internazionale in cui avvenne l’attentato è quello scaturito dall’invasione israeliana del Libano nel giugno del 1982 che aveva reso possibile a settembre il massacro nel campo profughi palestinese di Sabra e Chatila, perpetrato dalla Falange cristiano-maronita con la complicità dell’esercito di Tel Aviv, che secondo alcune fonti fece più di tremila vittime, famiglie, vecchi, bambini. A quella strage fecero seguito in tutta Europa una serie di attentati terroristici portati a termine da alcuni gruppi armati palestinesi, in particolare quello legato a Abu Nidal. Oggi sappiamo che le armi utilizzate per l’attacco alla Sinagoga di Roma spararono in quei mesi anche a Parigi, Bruxelles e Vienna sempre contro luoghi di culto o nei quartieri abitati dagli ebrei, facendo diverse vittime. Come nota Taché, colpendo gli ebrei di tante grandi città europee, come quelli di Roma, per ciò che avveniva in Israele, il carattere antisemita di quelle azioni emergeva in modo evidente.

Ma se la violenza terroristica avrebbe cambiato persino la vita quotidiana di molte comunità – l’attentato di Roma fu possibile anche perché mancò la vigilanza richiesta, e oggi costante davanti a sinagoghe e scuole ebraiche -, c’è un dolore profondo che questa vicenda illustra su cui si è riflettuto troppo poco e troppo superficialmente: prima de Il silenzio che urla solo un altro volume, firmato da Arturo Marzano e Guri Schwarz per Viella nel 2013, è stato dedicato all’attentato.

A POCHI MESI DALL’ATTACCO, la Sinagoga di Roma era stata oggetto di un’altra azione a suo modo violenta: durante una manifestazione sindacale una bara vuota era stata scaraventata davanti al portone. E il successivo scambio di messaggi tra il rabbino Toaff e il segretario della Cgil Lama non aveva davvero calmato le acque. Più in generale, sottolinea Taché, agli ebrei italiani venivano imputate le scelte di Israele e i toni delle critiche finivano spesso per pescare nel repertorio del pregiudizio antiebraico. Da questo punto di vista, ricordare l’attentato alla Sinagoga significa interrogarsi sulle forme che il vocabolario dell’odio continua ad assumere intorno e spesso anche tra noi.