L’Italia è, contemporaneamente, il maggiore importatore ed esportatore di prodotti lattiero-caseari. Come avviene per il pomodoro e per l’olio d’oliva. Sono i paradossi dell’industria agroalimentare italiana. Si importa, si trasforma e si esporta, perché il «Made in Italy» ha conquistato quote importanti nel mercato del cibo.

Sono ben 31 le categorie merceologiche che hanno a che fare col latte (dalle numerose tipologie di latte liquido ai formaggi freschi e stagionati, yogurt, mozzarelle, ricotta, provole, mascarpone, ecc.). Nel 2018, secondo la Coldiretti, le esportazioni del latte e dei suoi derivati sono cresciute di un ulteriore 5%, raggiungendo il massimo storico.

Mai una quantità così elevata di formaggio italiano è approdata all’estero, con Grana padano e Parmigiano reggiano in prima fila. Il valore dell’export del settore ha raggiunto i 3 miliardi di euro. Gli italiani, a loro volta, spendono ogni anno circa 7 miliardi di euro per l’acquisto di latte e dei suoi derivati. Ma dietro questi dati si nasconde una realtà complessa.

La protesta dei pastori sardi ha riproposto con forza la questione del rapporto tra produttori (agricoltori e allevatori), industria di trasformazione, grande distribuzione. Le crisi cicliche che investono le produzioni agricole chiamano in causa l’Unione Europea e la sua politica agricola. La crisi del latte è ricorrente, ora riguarda gli allevatori sardi, in anni precedenti ha interessato gli allevatori di bovini da latte. Intorno al latte si sono alternate decisioni che hanno sempre danneggiato produttori e consumatori, con la componente industriale che ha preso il sopravvento su chi alleva animali per produrre latte.

In Sardegna vengono allevati 3,5 milioni di ovini, che rappresentano la metà del patrimonio italiano. Le pecore sarde forniscono la metà del latte ovino prodotto in Italia e si sono generosamente prestate a fornire il loro latte per aumentare la produzione del pecorino romano, esportato soprattutto all’estero. L’industria casearia, per mantenere inalterati i suoi margini di profitto, vuole imporre ai pastori sardi un prezzo di 60 centesimi al litro, che non riesce a coprire nemmeno i costi di produzione. La grande discrepanza tra il prezzo pagato all’allevatore e il prezzo al consumo si verifica per tutti i tipi di latte. In Lombardia, dove si produce il 40% di tutto il latte italiano, l’industria casearia ha stabilito per quest’anno un prezzo di 37,5 centesimi al litro. Il valore del latte in Lombardia costituisce un punto di riferimento per le quotazioni a livello nazionale. Siamo di fronte ad una speculazione di filiera che si è consolidata negli anni, a tutto vantaggio dell’industria e della grande distribuzione. Il risultato: una azienda su cinque nel settore dell’allevamento non riesce a coprire i costi e finisce per cessare l’attività.

Le aziende di trasformazione, invece, concentrano l’offerta, operando una serie di fusioni. Nel 2017 è nata la Centrale del latte d’Italia, come risultato delle fusioni delle Centrali del latte di Torino, Firenze e Vicenza. Ma è il gruppo agroalimentare francese LACTALIS a controllare un terzo del mercato italiano, dopo aver acquisito i marchi della tradizione casearia italiana: Galbani, Invernizzi, Locatelli, Cademartori e, nel 2011, la Parmalat. La Granarolo è l’unica azienda italiana del settore lattiero-caseario ad avere una consistente quota di mercato. Questa situazione è anche il risultato di una politica agricola europea sbilanciata a favore delle grandi aziende agroindustriali e che penalizza pesantemente i piccoli agricoltori e allevatori.

La Politica Agricola Comune (PAC) era nata 60 anni fa con un duplice obiettivo: garantire una alimentazione adeguata ai cittadini europei e una giusta remunerazione agli agricoltori. Ha fallito entrambi gli obiettivi e la crisi del latte evidenzia in modo particolare questo fallimento. Attualmente l’80% per cento dei contributi europei va al 20% delle imprese agroindustriali, mentre le piccole aziende agricole e zootecniche fanno fatica a recuperare i costi di produzione. Le scelte operate in questi decenni dall’Unione Europea hanno privilegiato una agricoltura intensiva che fa un uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi, determinando un impoverimento del patrimonio di biodiversità, un peggioramento delle condizioni di salute dei consumatori, gravi e generalizzati danni ambientali, un aumento dello spreco di cibo.
Il fallimento della Politica agricola della UE si manifesta su tutti i fronti. Sono ben 55 i miliardi di euro che ogni anno vanno al settore agricolo, il 38% del bilancio comunitario. Il Parlamento Europeo sta decidendo in questi giorni le linee di politica agricola per il periodo 2021-2027 e la rivolta dei pastori sardi non poteva arrivare in un momento più opportuno. Essi stanno lottando per la loro sopravvivenza, ma anche per rivendicare un cambio di indirizzo nell’affrontare la «questione agricola».

Per la prima volta dopo decenni si parla di politica agricola non solo tra gli addetti ai lavori. Ne parlano i produttori e i consumatori, ne parlano le Associazioni ambientaliste, consapevoli che le scelte che verranno operate incidono su redditi, salute e ambiente. In Italia numerose Associazioni (AIAB, FAI, Wwf, Lipu, ISDE Medici per l’ambiente, Federbio, Legambiente, ProNatura) si sono costituiti nella Coalizione «Cambiamo agricoltura» per denunciare la politica agricola portata avanti dall’UE. Nel documento che riassume il lavoro svolto dalla Coalizione, si afferma: «Oggi l’Unione Europea sostiene una agricoltura malata, che favorisce un ristretto numero di aziende agricole, si produce cibo che danneggia salute, ambiente, animali, piante». E ancora: «Si dovrà decidere se più di un terzo della spesa comunitaria deve andare a favore di una agricoltura pulita in grado di produrre cibo sano, salvaguardia dell’ambiente, lavoro, oppure continuare a finanziare lo spopolamento delle campagne e l’impoverimento degli agricoltori e della qualità del cibo».
Gli obiettivi che la Coalizione ritiene necessari: sostegno all’agricoltura biologica, ristrutturazione delle filiere zootecniche per contrastare il ruolo negativo che la zootecnia intensiva svolge sull’ambiente, favorire forme di allevamento più sostenibili, garantire un reddito dignitoso agli allevatori. Ma la politica agricola dell’UE mostra tutte le sue contraddizioni, anche quando si tratta di varare una normativa che imponga di indicare la provenienza dei prodotti alimentari. L’Italia, che ha prodotti di qualità da proteggere, sotto la pressione di agricoltori e allevatori, ha varato leggi che mirano a contrastare l’anonimato delle produzioni. Già nel 1974 le forti proteste degli allevatori italiani avevano imposto l’approvazione di una legge che impedisce di produrre formaggi e yogurt partendo dal latte in polvere, attività consentita negli altri paesi dell’Unione. Nell’aprile del 2017 è entrata in vigore la legge che prevede di indicare la provenienza del latte e dei suoi derivati. Solo se il latte è stato munto, confezionato e trasformato nel nostro paese, può comparire la dicitura «Origine del latte: Italia». Se una delle fasi avviene in un paese diverso dall’Italia, si deve indicare che si tratta di «Latte di paesi UE». Anche in questo caso sono stati gli allevatori a spingere per ottenere questo risultato, dopo anni di proteste contro le importazioni di semilavorati, per porre un argine al «furto di identità e di reddito».

La legge del 2017 non riguarda i 49 formaggi italiani che hanno il riconoscimento DOP da parte dell’Unione Europea, perché le indicazioni erano già obbligatorie e prevedono l’uso di latte fresco italiano. Secondo la Coldiretti, nel 2016 e nel 2017 sono arrivati giornalmente in Italia 24 milioni di litri di «latte equivalente», tra latte liquido, formaggi, cagliate, semilavorati, latte in polvere. Sono soprattutto le cagliate importate a rappresentare un problema. Ogni anno ne arriva in Italia un milione di quintali, equivalenti a 10 milioni di quintali di latte. Questo semilavorato trova un largo impiego nella produzione di formaggi a pasta filata (mozzarelle, provole, scamorze). La mozzarella è uno dei prodotti simbolo del settore lattiero-caseario italiano, ma è anche il formaggio più esposto a frodi e sofisticazioni. Per ottenere un chilo di mozzarella sono necessari 7-8 litri di latte. Se viene venduta a 4 euro al chilo non proviene da latte fresco, ma è stata ottenuta partendo da cagliate di importazione. Produrre mozzarelle senza latte è stata, in questi anni, una attività molto redditizia per i caseifici italiani. La «guerra della cagliata» è destinata a continuare, ma almeno sarà possibile conoscere l’origine delle materie prime impiegate per le 500 mila tonnellate di formaggi non DOP che vengono prodotti e commercializzati ogni anno in Italia.