«Noi abbiamo creato il problema con l’assassinio di Giulio Regeni». Se si estrapolassero poche parole dal discorso del presidente egiziano al-Sisi in parlamento, si potrebbe avere l’impressione che Il Cairo sia pronto alla verità. Così non è: dalla bocca dell’ex generale esce la stessa litania (lo Stato è innocente) che è risposta negativa alle pressioni di Roma e al richiamo dell’ambasciatore. L’elemento in più è il duro attacco alla stampa nazionale: pur con fare suadente, il presidente del golpe accusa i media egiziani di bugie, propaganda e danni all’immagine del paese.

«Appena [Regeni] è morto, alcune persone hanno cominciato a dire che l’apparato di sicurezza era responsabile della sua morte. Invece è stata gente malvagia. Molti ne hanno parlato sui social network e dei professionisti hanno pubblicato la notizia. È propagandando bugie che abbiamo creato con le nostre mani il problema della morte del ragazzo italiano: se si guarda ai giornali, si vedrà come abbiano dato agli stranieri l’impressione che i servizi siano responsabili della sua morte. Dico ai media, voi siete parte dell’equazione per preservare l’Egitto, non fate dei social network le vostre fonti».

Ovvero dice ai media di tornare a fornire un’informazione basata sulle versioni del governo e non su quella di attivisti o indipendenti che la mettono in dubbio. È l’allergia dei vertici per spazi di apparente libertà come i social network. Apparente perché spesso sono tweet o post su Facebook a sbattere dietro le sbarre voci invise al regime.

Ma l’attacco poco velato alla stampa (anche tradizionalmente progovernativa) è il segno di una perdita di controllo. Sugli schermi è apparso un al-Sisi sulla difensiva, costretto a toccare tutte le questioni che in queste settimane stanno sgretolando l’autorità della sua figura: le isole sul Mar Rosso, Tiran e Sanafir, cedute all’Arabia Saudita; gli abusi contro ong e società civile, finalmente sotto i riflettori internazionali; e ovviamente la rottura con l’Italia sul caso Regeni.

Tenta la via del buon padre di famiglia che veglia sul paese e lo difende da presunti complotti interni o esterni. Ma le parole che ne escono non rassicurano: «Siamo pronti a rivedere le nostre azioni, a gurdare dentro le prigioni e rilasciare quelli che sono innocenti – dice il presidente – Proviamo a bilanciare le necessità di sicurezza con i diritti umani e a sostenere il ruolo delle organizzazioni della società civile. Ma quando dite ‘la libertà di espressione è il problema dell’Egitto’, non dite il vero: abbiamo problemi maggiori». Per questo, aggiunge, il popolo deve sostenere l’esercito.

Ma sono troppe le falle sulla nave di al-Sisi, fatta di dichiarazioni sempre identiche: massima trasparenza nelle indagini, «gente malvagia» non meglio identificata su cui scaricare la colpa, strenua difesa di chi gli garantisce legittimità, ovvero esercito e servizi. L’altra fonte di legittimità è l’Occidente che ha fin da subito, dal luglio 2013, dato la sua benedizione al golpe anti-islamista e accolto tra le sue braccia l’ex generale come partner militare e commerciale tra i migliori.

Lo ha fatto il premier italiano Renzi che ora tenta di fare pressioni sull’alleato. Al-Sisi non vuole rompere e invita gli investigatori italiani a tornare al Cairo: «Gli abbiamo detto di venire e ora glielo diciamo ancora: venite, state con noi. Affronteremo questo caso con trasparenza. Lasciamo che gli investigatori italiani si uniscano a noi e prendano parte ai nostri sforzi».

Finora gli unici sforzi sono stati volti a insabbiare le responsabilità. Ancora ieri tornava a galla la banda criminale a cui era stato imputato l’omicidio, subito smascherato come imbarazzante tentativo di salvare polizia e servizi. L’agenzia indipendente Mada Masr ha riportato la notizia della convocazione da parte dei servizi segreti interni, l’Nsa, dei familiari di Tareq Abdel Fattah, etichettato come capobanda. Di più non si sa perché avvocati e giornalisti sono stati lasciati fuori. Di certo alla famiglia Abdel Fattah saranno state poste domande relative alle ultime dichiarazioni rilasciate che scagionano i cinque uccisi dalla polizia in una sparatoria.

Nelle stesse ore a Strasburgo il parlamento europeo incontrava la delegazione parlamentare egiziana, mandata da al-Sisi a difendere Il Cairo dopo la risoluzione di marzo che condannava l’omicidio di Regeni e le violazioni dei diritti umani in Egitto. Un incontro «fruttuoso e promettente», lo ha definito la parlamentare egiziano Sherin Farraq. I 13 deputati hanno annunciato una seduta pubblica in parlamento sul caso Regeni.