Con la pubblicazione del secondo volume può dirsi terminato l’atlante fotografico sull’architettura dell’Italia settentrionale di Martin e Werner Feinersinger. Con il titolo Italo Modern, 1946-1976 (Park Books) l’impresa messa in campo dai due fratelli svizzeri – l’uno fotografo, l’altro architetto – adesso che possiamo esaminarla interamente, può ben essere considerata qualcosa di più di una guida: una preziosa raccolta fotografica che «se vista con curiosità, pazienza e occhi aperti – come ci invita a fare il critico austriaco Otto Kapfinger – apre per tutti noi un infinito labirinto di questioni estetiche». Innanzitutto quella riguardante il grado di sperimentazione linguistica che ha interessato un numero considerevole di architetti italiani del secondo dopoguerra, alcuni dei quali dimenticati, ma che meriterebbero studi appropriati non solo per toglierli dall’oblio nel quale li ha cacciati il conformismo accademico, ma in molti casi per salvare le loro architetture bisognose di restauro.

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È questo il motivo per il quale Italo Modern dovrebbe stare sui tavoli delle Soprintendenze regionali della Lombardia o del Veneto, affinché si possano conoscere per essere tutelate. In questa direzione ci auguriamo che il lavoro dei Feinersinger, che in anteprima è stato possibile apprezzare nella mostra allestita presso il Vorarlberg Architektur Institut (VAI) a Dornbirn in Austria (conclusa a febbraio) possa presto essere ospitata in Italia. Così ci si renderebbe conto cos’è stato il loro lungo tour iniziato nel 2004 e per certi versi ancora in corso. La loro scoperta dell’architettura italiana accadde per caso, al ritorno da un viaggio in Francia per conoscere le opere di Le Corbusier: passando per Milano scovarono la chiesa di Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti a Baranzate, costruita nel 1956. Ne furono impressionati per il rigore strutturale e per il volume vetrato disadorno.

Da allora la loro ricerca si trasformò nel continuo ritrovamento di un numero consistente di architetture originali e sorprendenti per l’audacia del linguaggio poco incline all’osservanza della Gute Form d’oltralpe, così come agli schemi dell’International Style. L’elenco di questi «spiriti creativi non convenzionali» comprende personalità note come Bbpr, Caccia Dominioni, Magistretti, Ponti, Gardella, Albini, Figini e Pollini, Gellner, Scarpa ecc., ma anche altri meno famosi come Walter Barbero, Giuseppe Gambirasio e Giorgio Zenoni (la Galleria Ceribelli di Bergamo gli ha dedicato di recente una bella mostra), Enzo Venturelli, Livio Norzi, Nicola e Leonardo Mosso, Gino Becker, Mario Galvagni, Armando Ronca o Enrico Villani, solo per citarne alcuni. Ci si domanda: qual è il criterio di scelta che ha guidato i Feinersinger nel loro racconto per immagini? La risposta è che non ve n’è alcuno riconducibile alla storiografia, ma come precisa ancora Kapfinger, solo la «forza vitale» del «dilettantismo» che riprendendo quanto asseriva Egon Friedell, è il solo stato dell’essere che permette un’empatia speciale con l’oggetto.

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È stata la «fascinazione e l’ossessione di un architetto e di un artista», quindi, a produrre questa singolare recherche sentimentale come l’ha definita il critico austriaco nel saggio – «Atlantide rivisitata» – il solo contenuto nella raccolta. Nello sfogliare le quasi mille pagine che la formano, ci si rende subito conto come da noi, in tempi non molto lontani, gli architetti siano stati capaci di mettere in discussione, a volte radicalmente, le regole e i codici della modernità, di accogliere con coraggio le sfide più immaginifiche a dispetto delle mode dominanti. In altri casi è possibile scorgere anche “fughe dal reale, delle dissipazioni formali remote da qualsiasi riferimento ai contenuti” come scrisse Zevi alla fine degli anni Sessanta. Distinguere e ordinare criticamente è compito però del lavoro storico che da oggi ha nuovi materiali da considerare, quelli troppo a lungo trascurati.