E poi arrivai alla grande città. Segnata dal virus del desiderio di esplorare gli Altrove, appena potei, ovvero terminati gli studi, lasciai il casone natale, la campagna con i campi piatti, la provincia e approdai a Milano. Era circa la metà degli anni Ottanta, esisteva ancora la Milano da bere e Craxi governava con Andreotti e Forlani. Archeologia della politica. Il mercato degli alloggi, allora come adesso, era costoso. Trovai una camera in affitto da una vecchissima contessa decaduta e poi da una meno vecchia pittrice mai decollata. Avevo una stanzetta con un letto, un armadio e un tavolino. Mi sentivo in prestito, una precaria dell’alloggio oltre che del lavoro perché quando abiti da qualcuno che non conosci e con cui non hai nulla in comune non ti senti mai davvero a casa. Di portare con me la bicicletta non ci pensai nemmeno. Dovevo prima imparare a conoscere le strade, i nomi delle vie, i tragitti dei tram e degli autobus, i quartieri. E poi la bicicletta apparteneva alla vita che avevo lasciato, per cui la Sovrana uscì dai miei orizzonti, almeno all’inizio.

Ci impiegai un anno a farmi un po’ cittadina e a trovare due stanze tutte per me. Fu allora che cominciai ad andare in crisi di astinenza e a sentire la mancanza di una bicicletta. L’auto non la possedevo, non mi interessava e non potevo permettermela, e poi adoravo usare gli chauffeur dell’ATM che mi scarrozzavano in giro per la città quasi come e quando volevo. Cominciai quindi a prendere in considerazione l’idea di portare la Sovrana a Milano, ma c’era un problema. La Sovrana era ancora integra e sembrava nuova, quindi avrebbe attirato l’attenzione dei ladri. Allora non esistevano ancora i quasi inattaccabili bloster e nel cortile di casa non erano ammesse le biciclette. Lasciarla sul marciapiede, benché affrancata con una catena, significava darla in pasto ai ladri. L’idea mi angosciava, così mi ricordai che nel garage del casone sonnecchiava la bicicletta della nonna, abbandonata da anni e un po’ arrugginita perché non usata da tempo immemore. Era una Atala grande e solida, con il manubrio e il sellino ampi, adatta a portare pesi massimi e con le ruote abbastanza larghe da non entrare nelle rotaie dei tram. Un mezzo catorcio così non avrebbe attirato l’attenzione di nessun ladro di biciclette e così decisi che avrei portato lei a Milano, tanto alla nonna non serviva più.

Già, ma come trasportarla dal parmense al capoluogo lombardo? Con il treno era complicato e costava, nel bagagliaio dell’auto di mio padre non entrava, amici con un furgoncino non ne avevo. Che fare? L’idea mi venne un mattino svegliandomi e mi stupii di non averci pensato prima. Facile, l’avrei portata io stessa pedalando. In fondo si trattava di percorrere solo cento chilometri e se non ci fossi riuscita in un giorno, mi sarei fermata a dormire da qualche parte, quel viaggio sarebbe diventato una gita, una piccola vacanza con un fine utile. Ne parlai con un amico che mi disse: «Vengo con te». «E come fai – gli chiesi – visto che non hai una bici?». «La compro lì. Anzi, potresti chiedere a tuo padre se ne trova una usata per me?». Così fu fatto.

Ora c’era da pensare all’itinerario. Non se ne parlava neppure di percorrere la via Emilia, sempre ingolfata di auto e camion. Bisognava trovare strade alternative, quelle basse che uniscono paesini e segnano i confini dei campi, bellissime, ma sulle quali ti puoi perdere o girare in tondo se non le conosci. Nessuna mappa normale le segnava abbastanza, per cui comprai le cartine militari delle zone che avrei attraversato. Lì c’era tutto: strade provinciali, comunali, di campagna, sentieri, carraie, fiumi, ruscelli, canali, ponti grandi, ponticelli, guadi, casolari, poderi con i relativi nomi. Era una pacchia. Con quelle carte avrei potuto svoltare dove mi pareva senza paura di perdermi, avrei potuto allungare il percorso fino all’inverosimile, lasciarmi trasportare dalla curiosità per un nome o una zona e sapere sempre esattamente dove mi trovavo. Allora non esisteva Google Maps, ma se anche ci fosse stato non lo avrei usato. Per carità, è utile, ma l’idea di affidarsi a qualcuno che decide l’itinerario per te mi disturba. E poi ti obbliga a stare perennemente connesso, a guardare sempre dentro uno schermo, ti propone di affidarti ciecamente a lui togliendoti, oltre alla vista di insieme che sola una mappa di carta sa darti, la bellezza dell’inventare, perdersi e cambiare idea. Con le carte militari mi sentivo al sicuro, bastava piegarle e infilarle in tasca.

Il resto lo avrebbero fatto il mio desiderio di improvvisazione, la mia curiosità e l’Atala che sembrava fatta apposta per la città. La sua vernice color salvia o grigia, non si capiva più bene, era mezza scrostata, aveva bolli di ruggine qua e là, le manopole di osso erano sbocconcellate e opache, ma una volta cambiate e gonfiate le gomme, oliata la catena, le molle e i freni, filava benissimo e sul quel sellino pensato per culi possenti, come quello della nonna appunto, si stava comodi come su un trono.

Io e l’amico partimmo un sabato di Aprile. Avevamo due giorni per arrivare a Milano. Il cielo era pieno di nuvole, la luce grigiastra. Mia madre, vedendoci imboccare la strada, scosse la testa per la mia stramberia, ma sono sicura che, se avesse potuto e avessi insistito, sarebbe venuta anche lei.

Appena uscii dal cortile di casa girai a sinistra e puntammo verso Roncole Verdi, Busseto, Sant’Agata. L’obiettivo era arrivare al ponte di ferro sopra il Po vicino a Monticelli d’Ongina, e lì scavallare il grande fiume d’Italia. Questo itinerario mi permetteva anche di salutare l’Emilia attraversando i luoghi verdiani che ho sempre amato. Le strade erano deserte, incontrammo solo qualche trattore e due o tre auto scassate di contadini che si recavano nei campi.

Arrivammo al Po a fine mattina e, come sempre, mi incantai a guardare il paesaggio fluviale dentro l’argine maestro, le golene con i pioppeti, i bacini di espansione, le lanche, le rive sassose. Al di là, nel territorio lombardo del cremonese, spuntarono alcune risaie. Fosse stato per me avrei fatto deviazioni in lungo e in largo, ma non si poteva zigzagare in eterno altrimenti non saremmo mai arrivati a Lodi in serata, come si era deciso. E poi nel pomeriggio cominciò a cascarci addosso un problema imprevisto.
Quando non si va in bicicletta da molto tempo e non si è allenati sulle lunghe distanze, non sono le gambe a creare problemi, ma il culo. Se non si indossano calzoncini con l’imbottitura, dopo circa cinquanta chilometri le chiappe cominciano a lamentarsi e non sai più da che parte stare seduto. Allora non lo sapevo, peccai di ignoranza e presunzione. Percorsi gli ultimi chilometri in vista di Lodi sognando di sedermi su una montagna di cuscini e fu davvero uno strazio.

Ricordo poco dell’albergo in cui ci fermammo, solo che mi permise di scendere dal sellino e di mettere l’Atala al sicuro.
Il mattino dopo, per fortuna e non si sa come, le chiappe si erano ristabilite e lì si dovette affrontare quello che si rivelò il problema più difficile: come arrivare da Lodi a Milano evitando strade trafficate. Era impossibile. Da qualunque parte si provasse, prima o poi si cadeva in bocca a una statale o a una tangenziale o a una provinciale da infarto. Provate anche oggi a chiedere al quel sapientone di Google Maps che cosa vi suggerisce. Se gli domandate di usare la bicicletta vi dice che non ha itinerari a disposizione. Se provate a piedi vi propone la Statale n. 9, o via Mecenate o viale Forlanini, e ve le raccomando tutte e tre.

L’Atalanta fu bravissima. Però quell’arrivo da incubo mi fece capire che, sebbene in pianura, Milano metteva fra sé e i ciclisti non una, ma mille barriere e quella era una roba da psicanalisi che non avevo previsto. Lì capii che la grande città offre molte prospettive, ma sa anche farsi tanto male, e non immagina quanto.

3. continua