Una batosta. E Benyamin Netanyahu la sente tutta. Non lo dicono solo i risultati delle elezioni di due giorni fa. La sua decisione di non andare all’Assemblea generale dell’Onu, un palcoscenico che non mancherebbe per nulla al mondo, dove ama attaccare a fondo l’Iran, è un segno evidente del dramma politico che sta vivendo.

D’altronde Netanyahu aveva fatto del voto un referendum sulla sua persona e la maggioranza degli israeliani non lo ha seguito. Certo, la sconfitta è di misura ma chiara e rischia di portarlo a un’imprevista uscita di scena dopo un lungo regno segnato da forti sterzate verso la destra estrema e dai colpi inflitti ai diritti dei palestinesi.

E se anche riuscisse a venir fuori, con un clamoroso colpo di coda, dallo stallo politico che lo condanna, comunque Netanyahu dovrà fare i conti con la giustizia. Nelle prossime settimane il procuratore generale Mandelblit deciderà se mandarlo sotto processo per corruzione.

L’incarico di formare il nuovo governo il capo dello Stato dovrebbe assegnarlo a Benny Gantz. Il suo partito Blu e Bianco, era in testa ieri di un seggio dopo il conteggio del 95% dei voti. 32 seggi contro i 31 del Likud di Netanyahu.

Entrambi gli schieramenti però sono sotto la maggioranza di 61 seggi su 120 della Knesset. La destra, nazionalisti e religiosi, senza il partito Yisrael Beitenu dell’ago della bilancia Avigdor Lieberman, è ferma a 55 seggi.

Il centrosinistra, compresa la Lista araba unita (13 seggi come nel 2015) si attesta a 56 deputati. Gantz avrebbe il diritto di provarci e comunque il capo di Stato Rivlin ripete che farà il possibile per evitare che il paese vada di nuovo al voto nei prossimi mesi, per la terza volta in un anno.

Netanyahu ieri sera ha riunito i vertici del Likud e dei sui potenziali alleati di governo per fare il punto e trovare una via d’uscita politica. Il premier sconfitto sarebbe pronto anche ad alleanze innaturali pur di salvarsi. Quelli del Likud hanno preso contatto con i laburisti (sei seggi) scampati per poco all’estinzione politica. Nulla di concreto per ora, ma è un segnale. E girano voci che il Likud cercherà di «persuadere» qualche parlamentare del fronte opposto a passare dalla sua parte, promettendo incarichi di prestigio.

In queste ore però emerge uno dei nodi principali della politica di Israele. Il paese che si proclama l’unica democrazia del Medio Oriente nega ai partiti arabi di far parte di un governo. Motivo: non sono sionisti e chiedono che Israele non si definisca Stato del popolo ebraico ma di tutti i suoi cittadini.

La Lista araba unita è il terzo gruppo parlamentare alla Knesset, un traguardo ottenuto grazie a un’alta percentuale di votanti nei centri arabi (60%) cinque mesi dopo il flop delle passate elezioni (l’affluenza fu del 49%).

Il leader della Lista, Ayman Odeh, ha avuto un colloquio telefonico con Gantz. «Insieme – ha riferito – decideremo quale percorso intraprendere, vogliamo rimpiazzare il governo di Netanyahu ma niente è scontato». Odeh sa che al massimo ai partiti arabi sarà proposto un appoggio esterno a un eventuale governo guidato da Blu e Bianco, in cambio della loro indicazione per l’incarico a Gantz.

A suggerirlo è stato l’ex premier laburista Ehud Barak, ora leader di Campo Democratico (cinque seggi). In ogni caso l’ago della bilancia Lieberman, di cui Gantz non può fare a meno, fa già fuoco preventivo. Ieri ha ribadito i suoi profondi sentimenti anti-arabi e dettato le sue condizioni. «Non saremo in alcun governo in cui sia inclusa la Lista araba unita, o comunque un partito arabo; non in questo Universo, né in un Universo parallelo».

Tra la folla di sostenitori giubilanti, Lieberman ha ripetuto che Yisrael Beitenu entrerà solo in un governo nazionale liberale guidato da Likud e Blu e Bianco. «Se Benny Gantz e Benyamin Netanyahu non si pronunceranno in tal senso, che non si sforzino nemmeno di telefonarmi. Per quanto ci concerne non c’è alcuna altra opzione», ha avvertito.

E chiede anche una legge per l’arruolamento senza eccezioni degli ebrei ultraortodossi, trasporti pubblici durante lo shabat ebraico e l’introduzione in Israele di matrimoni civili. Altrimenti, fa capire, meglio andare di nuovo alle urne.