Il senso di inadeguatezza che provo nello scrivere queste righe deriva innanzitutto dal fatto che quando Pietro Ingrao decise che ormai il gorgo era altrove rispetto alle varie mutazioni dell’ormai ex Pci, nel 1993, io non avevo ancora compiuto un anno. Mentre mi affacciavo al mondo la sua vita politica prendeva l’ultima, importante, svolta. Per me, per la mia generazione, Pietro Ingrao è stato innanzitutto un uomo del Novecento – un secolo che, osservato dalla sua prospettiva, sembra essere affatto breve – e delle sue incommensurabili contraddizioni. Sarebbe un esercizio inutile ripercorrere, senza scadere in banalità o ridondanze, le sue scelte di vita e in particolare di vita politica: altri ne hanno ben più titolo. È forse più interessante trarre lezioni dall’enfasi del suo raccontare, dalla sua straordinaria capacità critica e autocritica.

Proprio calcando la mano sulle vicende più discusse del suo impegno nel Pci e in particolare sul suo voto favorevole all’espulsione del gruppo del Manifesto nel 1969, in molti ritengono di poter confinare il racconto della figura di Ingrao nella dimensione collocabile tra l’eclettismo analitico e l’etica del Partito, una dimensione ormai sepolta dalla caduta del Muro e dalla fine della Prima Repubblica. In questa ricostruzione le contraddizioni che egli stesso amava indagare e mettere in tensione, sottoponendole alla prova dell’intelletto umano e della sua capacità di illuminare gli angoli più oscuri della realtà, risultano irrimediabilmente spianate. Quella di Ingrao, dunque, sarebbe una figura dalla quale oggi è possibile trarre al limite qualche elemento di rilevanza storica, vagamente mitologica e agiografica, ma nessun insegnamento concreto, nessuno strumento da mettere nella cassetta degli attrezzi per smontare le brutture di questo mondo.

Mi sento di poter dissentire. Dal pensiero e dall’azione di Pietro Ingrao sto ancora imparando molte cose, e tante credo di poterne imparare.
Innanzitutto su cos’è il dubbio, cosa significa provare a farne strumento potente in una società in cui esso è molto evocato e assai poco praticato. Era più difficile mettere in dubbio, interrogarsi e interrogare, dissentire, fare tutto ciò in forma produttiva, con una continua tensione verso la trasformazione della realtà, nell’epoca dello scontro tra ideologie contrapposte? Oppure oggi, nell’epoca del dominio incontrastato dell’ideologia unica del libero mercato? Per questo credo che questo primo insegnamento non sia affatto scontato.

Ancora, credo sia grazie a Ingrao che è diventato per me un po’ più chiaro cosa sia la luna. La luna, per alcuni, sarebbe la cifra della sconfitta di Ingrao: per me è piuttosto il segno di una battaglia che è ancora aperta. Lungi dall’essere un luogo situato in una posizione indefinita tra l’astrazione dalla realtà e l’eterna sconfitta, come qualche detrattore mascherato vuole far passare in alcuni coccodrilli, essa è piuttosto quella direzione verso la quale far avanzare ancora l’orizzonte delle aspettative. La luna è possibile? Sì, lottando dentro il continuo sviluppo della società, dentro le vecchie forme di dominio e le nuove possibilità di liberazione, sapendo che «in fondo, a ben vedere, certi guardiani, per forti e feroci che siano, sono tuttavia alla fine abbastanza stupidi», come disse Ingrao al XIX Congresso del PCI, nel 1990.

Ciò che ancora non credo di aver colto in tutta la sua complessità è il significato primo dell’indicazione di «rimanere nel gorgo». Quando mi imbattei per la prima volta nella formula retorica utilizzata da Ingrao all’XI Congresso in risposta a Longo sulla questione del centralismo democratico, la trovai di un tatto incomprensibile per la dialettica politica di oggi: quel volteggio di piuma, accolto da applausi scroscianti, era stato tuttavia capace di ferire come una lama d’acciaio. Difficile dunque astrarre da un periodo storico completamente diverso da quello di oggi: credo tuttavia che «rimanere nel gorgo» fosse un’indicazione di ricerca e di azione – e del rapporto indissolubile tra questi due aspetti – rivolta alla realtà, all’intricato rapporto tra masse e potere, impossibile da ridurre alla semplice collocazione dentro o fuori dal Partito (che pure era parte fondamentale di quell’indicazione).

Infine, l’insegnamento più prezioso, che più sento dentro, è quello di lasciarsi interrogare dalle rivolte. Non ho mai avuto la fortuna di incontrare Pietro Ingrao, ma ho incontrato spesso la misura concreta di queste sue parole nella costruzione delle organizzazioni studentesche, negli sguardi delle migliaia di studentesse e studenti in strada e in piazza, nell’impegno politico e nella necessità di cambiare il mondo. Il nostro cammino è ancora nel tempo delle rivolte che non è sopito.

Grazie di tutto Pietro Ingrao.