«È un film di guerra? Sì, nel senso che è il tipo di film di guerra che interessa a me». Così aggirando la domanda con un lieve di disagio, Richard Linklater ha descritto il suo Last Flag Flying, presentato giovedì sera in apertura del New York Film Festival. «Al cinema non si vedono molte storie in cui si esplora l’effetto di una guerra su dei personaggi trent’anni dopo che è avvenuta. Qui mi piaceva il modo in cui due guerre – il Vietnam e l’Iraq- si parlano a vicenda, il rapporto i soldati giovani e i veterani era molto affascinante» ha detto ancora Linklater al direttore del festival Kent Jones. «I fatti del film sono ambientati nel 2003, lo scollamento temporale ci permette una certa prospettiva. Abbiamo cominciato a parlare di questo progetto nel 2005. Ma è persino meglio che sia passato tutto questo tempo. Che non si tratti di racconto ’a caldo’».

«A caldo», però, l’ultimo lavoro del regista di Boyhood e di Everybody Wants Some! una dimensione ce l’ha, suo malgrado, perché -visto in questo autunno 2017, e girato l’anno scorso proprio durante le elezioni – sembra inscindibile dall’America di oggi, molto più che da quella di quindici anni fa – nonostante le immagini della cattura di Saddam Hussein scorrano in TV e alla Casa bianca ci fosse George W. Bush invece di Donald Trump. Al punto che viene da chiedersi che film sarebbe uscito dallo stesso testo/girato se il risultato del voto del novembre 2016 fosse stato diverso.

Cosceneggiato da Linklater e Darryl Ponicsan, Last Flag Flying è un sequel spirituale del film tratto dal libro più famoso del romanziere della Pennsylvania, L’ultima corvè. Nell’abrasiva antimilitarista, commedia di formazione di Hal Ashby (un On the Town della controcultura, su dialoghi di Robert Towne al posto delle musiche di Leonard Bernstein) realizzata nel 1973 e quindi in corso di Vietnam – i marinai Jack Nicholson e Otis Young scortavano la recluta Randy Quaid dalla base di Norfolk, in Virginia, a una prigione di Portsmouth, in New Hampshire. La sua colpa? Aver rubato quaranta dollari.
Anche Last Flag Flying è un racconto on the road, dalla Virginia al New England- con tre veterani e un cadavere.
Il film apre in un bar scuro di Norfolk dove il barista/proprietario Sal (Bryan Cranston) le spara grosse da dietro a un bancone semideserto -il suo uno di quei monologhi classici di chi è terrorizzato dal (proprio) silenzio.

Topescamente timido, il secondo avventore del locale, Larry (Steve Carell) dopo un po’ si rivela essere un vecchio compagno d’armi, che invita Sal per una guidata fino a una chiesa non troppo vicina dove, a sorpresa, un altro commilitone, Mueller (Laurence Fishburne), un tempo il più intenibile del gruppo, si è reinventato come sacerdote. I tre non si vedono o sentono da trent’anni ma Larry ha bisogno di aiuto – suo figlio marine come loro è stato ucciso a Baghdad e vuole che i due amici lo accompagnino a seppellirlo.

Dall’incontro notturno ai cancelli di Arlington, alla grigia pista della Dover Airbase, dove -nello spazio squallidamente enorme di un hangar- tristi bare coperte di bandiere a stelle e strisce vengono presentate a famiglie distrutte dal dolore ma lontano dagli occhi indiscreti dei fotografi e dei media, che avevano fomentato l’opposizione alla missione in Vietnam: Last Flag Flying parte con i presupporti di libertà e digressioni spazio/temporali cari a Linklater e al suo cinema costruito sui dolci ritmi di cliffangher nascosti -nello snodarsi di dialoghi interminabili- dietro a gesti impercettibili, pause minime, inscrutabilità abissali che ti aspettano dietro a semplici angoli di strada.

Ma è come se, fin dall’inizio, il flusso di coscienza del film, la sua libertà interiore e la generosità dello sguardo a cui questo regista ci ha abituati, venissero soffocati, addomesticati dalla scrittura. Come se la complessità della vita e delle emozioni che Linklater sa evocare in modo così accurato qui assumessero un tono programmatico. Avventurando il suo occhio/cinema in territori da cui Eastwood e Cimino ci hanno regalato geografie umane di brutalità e bellezza sconvolgenti, il regista texano – forse anche per una questione generazionale e di background – ne ricava un film timido, frustrantemente cauto. Anche rispetto a un cult dei Seventies come The Last Detail, probabilmente più vicino a lui dal punto di vista politico di quanto lo possano essere Il cacciatore o American Sniper.

La sua è un’adesione di testa, piuttosto che emotiva o di pelle, persino rispetto al lavoro di autori più giovani come Peter Berg o David Gordon Green, che hanno saputo dimostrare un istinto naturale per il racconto dell’America blue collar. Linklater sembra invece incepparsi tra la sua vocazione pacifista, liberal, femminista ed educata e la paura di offendere «l’altro». E se questo film trova la sua epifania in un salotto povero di Boston, in quello che passa sui volti nella magnifica scena tra i tre veterani e Cicely Tyson, l’impennata patriottica finale, anche a nome del giovane soldato morto (!) sembra meno sentita che rispettosa. Quindi – come tradotta nella grana del cinema – inautentica.