Potrebbe volerci ancora qualche giorno per sapere con certezza chi sfiderà Andrés Arauz al secondo turno delle presidenziali ecuadoriane.

Con 99,30% delle schede scrutinate, Yaku Pérez, il candidato di Pachakutik, il braccio politico della Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie), ha incrementato il suo vantaggio sul banchiere Guillermo Lasso portandolo a circa mezzo punto: 20,07% contro 19,50%. Ma, concluso lo scrutinio, bisognerà probabilmente attendere l’esito dei ricorsi e un eventuale riconteggio dei voti.

Se fosse il candidato indigeno a contendere la vittoria al ballottaggio al delfino di Rafael Correa, nettamente primo con il 32,06% delle preferenze, le sue possibilità di spuntarla non sarebbero trascurabili.

Ferreo oppositore tanto dell’attuale presidente Lenin Moreno quanto del suo predecessore Rafael Correa, sotto il cui governo era stato arrestato per ben cinque volte per la sua lotta contro i progetti minerari, il candidato indigeno ed ecologista non avrebbe grandi problemi a intercettare gran parte dei voti dell’anticorreísmo.

NON A CASO, Lasso ha già dichiarato che, in un eventuale ballottaggio tra i due, appoggerebbe Pérez. Ricambiando così il favore ricevuto dal leader indigeno nel 2017 quando, alla domanda su chi avrebbe sostenuto tra Correa e il rappresentante della destra, era giunto ad affermare: «Meglio un banchiere che la dittatura».

Descritto dai settori correisti come un candidato al servizio delle forze conservatrici e del governo Usa, legato alle ong finanziate da Washington e dall’Europa e, secondo Ben Norton del portale The grayzone, «un cavallo di troia per i nemici più accaniti della sinistra», Yaku Pérez è sicuramente un inflessibile nemico delle politiche estrattiviste portate avanti anche dal governo di Rafael Correa.

È DAL 1994, infatti, che Pérez è impegnato nella lotta per proteggere le fonti idriche dalle imprese minerarie, principalmente nella provincia di Azuay, nel sud dell’Ecuador, di cui è stato eletto governatore nel 2019 con un programma di chiaro stampo ecologista, prima di rinunciare alla carica, nell’ottobre dello scorso anno per presentarsi come candidato presidenziale.

Una campagna, la sua, condotta sulla sella della sua bicicletta di bambù e con due compagni inseparabili: la bandiera wiphala e il sassofono.

Già presidente dell’Ecuarunari, la più importante organizzazione della Conaie, nel 2017 ha sostituito il suo nome, Carlos, con Yaku Sacha, che in quechua significa «acqua di montagna», per coerenza con la sua lotta in difesa delle fonti idriche. «Bisogna salvare il pianeta – afferma – Quello che abbiamo non appartiene a noi, ci è stato prestato dai nostri figli: non vogliamo lasciare loro un’eredità fatta di contaminazione e di saccheggio».

In attesa di sapere se sarà lui a vedersela con Arauz, il candidato indigeno una vittoria l’ha comunque già ottenuta: nella consultazione sul divieto dell’attività mineraria nelle aree vicine ai cinque fiumi di Cuenca, ad Azuay, la sua roccaforte elettorale – approvata dalla Corte costituzionale dopo ben tre tentativi falliti da parte di Pérez – sarebbe stato più dell’80% degli elettori, secondo i dati preliminari, a dire no ai progetti estrattivisti.

UNA LOTTA, QUELLA di Cuenca – nella cui area si trovano due dei cinque progetti minerari considerati strategici dallo stato ecuadoriano (Loma Larga e Río Blanco) – che ha ricevuto, dall’Argentina, la solidarietà della popolazione di Chubut e di Mendoza, la cui lotta contro l’estrattivismo è riuscita finora a scongiurare l’approvazione di progetti minerari in entrambe le province.