Passate le elezioni dovrebbe infine essere affrontato l’eterno nodo della legge elettorale. Si dovrebbe vedere se è possibile riprendere il percorso interrotto bruscamente a Montecitorio o se la partita è chiusa definitivamente.

È probabile che invece ci sarà un nuovo rinvio. Forza Italia chiederà la calendarizzazione in luglio o in settembre. Il Pd, salvo ripensamenti dell’ultimo momento, opterà per la seconda ipotesi. Ma il rinvio non sederà le tensioni né a destra né all’interno del centrosinistra. Per quanto infatti la questione venga tenuta sotto tono, l’origine della doppia e speculare guerra in corso nei due poli è proprio quella: la legge elettorale e tutto quel che comporta in termini di strategia a lungo termine e di identità politica.

A destra la vittoria non ha portato neppure un secondo di concordia. La lacerazione è emersa subito, sin dai primi exit poll di domenica notte, ma si è palesata in pieno solo ieri, con pietra dello scandalo proprio la legge elettorale. Salvini, subito dopo l’exploit, aveva proposto una sterzata drastica verso il maggioritario con premio alla coalizione: una gabbia per impedire all’ex Cavaliere ogni libertà di movimento. Senza rispondere apertamente, l’esimio interlocutore aveva replicato con un comunicato che suonava come “no” su tutta la linea. Il leghista temporeggia per ventiquattro ore poi sbotta: «Il mio appello sembra caduto nel vuoto. Se Berlusconi tace mi viene il dubbio che strizzi l’occhio a Renzi. Chi vuole il proporzionale vuole l’inciucio». Giorgia Meloni rincara: «A volte Berlusconi sembra più interessato a dialogare con gli avversari che con gli alleati. Non vorrei che fosse rimasto il solo a volere Renzi alla guida del Paese».

Il dubbio del Matteo ruggente è fondato. Berlusconi ha sempre mantenuto un filo, pur se indiretto, con Renzi. Obiettivo: resuscitare la legge “tedesca” affossata in aula. Lo ha fatto proprio con l’obiettivo sospettato da Salvini: tenere il piede in due staffe. Ma la spericolata manovra, già difficile prima delle ultime elezioni, lo è ancora di più ora. La Lega, che dell’accordo era un elemento centrale, non solo si è sfilata ma è approdata a posizioni opposte. Inutilmente Brunetta e il capogruppo forzista in commissione Francesco Paolo Sisto ricordano che sino a un mese fa anche la Lega era per il proporzionale, «e non credo che volesse inciuciare», ironizza Brunetta. Le cose sono cambiate.

Renzi, che ha sin qui ricambiato in abbondanza le strizzate d’occhio di Berlusconi, deve fare i conti con un’opposizione nel partito e soprattutto nella sua area vasta di riferimento la cui potenza di fuoco si è fatta sentire in pieno ieri, e non per la prima volta. Walter Veltroni non è tipo da parole forti e toni da caserma. Però, pur se con il suo vocabolario morbido, l’intervista di ieri a Repubblica, era una scomunica piena in particolare proprio sul fronte della legge elettorale. Il padrino del «partito a vocazione maggioritaria» (però «includente, non autosufficente» e chissà cosa vorrà mai dire) chiede una legge maggioritaria con premio di coalizione per chi supera il 40 per cento e la riapertura del dialogo con Giuliano Pisapia in nome del «campo largo».

Una strategia non diversa ma diametralmente opposta rispetto a quella del Nazareno. Ma anche una strategia ostile, pur se in maniera non dichiarata. È ovvio che, una volta conquistata una legge elettorale tale da rimettere al centro le coalizioni, la candidatura a premier di Renzi andrebbe ridiscussa. Bisognerebbe di fatto ripartire da zero e un segretario “divisivo” più di come non si può e sconfitto per tre volte di seguito nelle urne avrebbe poche chance di essere il prescelto.

In queste condizioni di stallo anche il piano di battaglia sin qui vagheggiato dal fronte proporzionale, nel quale era determinante la capacità di Arcore di recuperare voti in particolare centristi al Senato per poi tentare lì la forzatura, sarebbe per il Renzi assediato un rischio eccessivo.

La soluzione dunque sarà un nuovo rinvio. «Inutile parlare di coalizioni senza sapere con quale legge elettorale», dice il segretario del Pd per sfuggire all’accerchiamento del fronte ulivista. Come se parlare dell’una cosa non comportasse automaticamente discutere anche dell’altra.