«Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza, con rabbia». La prima frase di Le parole tra noi leggere di Lalla Romano, il libro in cui la scrittrice piemontese descrive il legame con il figlio, individua una specifica declinazione della forma romanzo: non tanto il racconto mobile di fatti tra loro concatenati, quanto il progressivo accerchiamento di un’unica figura. Non il divenire ma il circoscrivere, non la fluidità bensì la stasi; non – ancora – l’illustrazione di ciò che accade bensì l’estrazione se non l’estorsione di un senso da ciò che di senso appare privo.

L’invenzione della madre, romanzo d’esordio di Marco Peano (minimum fax, pp. 280, euro 14,00), è la storia di un assedio. Quello in cui, sulla falsariga del libro di Lalla Romano, un figlio stringe una madre – la storia della sua morte e della sua vita, il tempo che precede la fine e il tempo che la segue. Concentrandosi ostinatamente (fino all’autoipnosi) sulla inconcepibilità della scomparsa, la scrittura crea un nesso, in teoria paradossale ma in realtà del tutto logico, tra il trauma e l’incanto. Perché – ed è solo una tra le ragioni per le quali l’esordio di Peano lascia ammirati – quando il dolore prende il sopravvento, lo stato di sospensione che subentra ha qualcosa di simile allo stupore. Il lutto, a quel punto, non si limita a essere un periodo da elaborare, offrendosi semmai come un punto di vista sul mondo; come qualcosa, cioè, che trascendendo la contingenza si fa perdurante escatologia.

Fin dal principio Mattia, il protagonista del romanzo – ventisei anni, studi di cinema interrotti, commesso in una videoteca, il quotidiano come un fermo immagine –, consegna se stesso alla registrazione insieme ossessiva e delicata di ogni fenomeno connesso alla morte della madre. Dalla notizia della sua seconda caduta domestica, segnale della recidiva del tumore, che arriva via cellulare mentre Mattia è seduto in macchina, il finestrino che lascia penetrare il freddo nell’abitacolo («Si era trattato semplicemente di un repentino abbassamento della temperatura: eppure la morte di ogni organismo avviene così»), all’istante in cui nello schermo spento della tv è riflesso il corpo della madre appena morta, al giorno nel quale, dopo la fine, il figlio estrae il termometro dall’astuccio per misurarsi la febbre e si rende conto che il 38.5 segnato dalla colonnina di mercurio è «l’ultima temperatura della madre, un paio d’ore prima che morisse», Mattia è condannato a quella che percepisce come un’autopsia del presente. Vale a dire che non può far altro che vedere corrispondenze, coincidenze, situazioni che accidentalmente eppure inevitabilmente si mettono in rima: esplorare metafore, studiare etimologie. Perché laddove, al cospetto della morte, tutto perde senso, allora tutto deve avere senso, ogni particella di realtà è sintomatica e rivelatrice, il significato deve nidificare ovunque.
E nonostante ciò tutto resta intollerabile e l’indagine non conduce a nulla se non a immaginare di poter conservare il fiato della madre in una serie di palloncini così da poterne affrontare la mancanza futura inalandone il respiro. Viene in mente il James Ellroy di I miei luoghi oscuri – a sua volta la storia di un’indagine, quella sull’omicidio della madre dello scrittore californiano («La sua morte aveva corrotto la mia immaginazione e mi aveva fornito doni che avrei potuto sfruttare»), la scena in cui, raggiunto il magazzino prove e reperti dove è archiviato ciò che la donna indossava al momento dell’assassinio, il figlio porta al viso reggiseno calze e vestito annusando la stoffa in cerca di un odore.

Ed è forse proprio nell’euforia e nella frustrazione suscitata dall’inseguimento della vita molecolare che il romanzo di Marco Peano trova il suo fondamento. Mattia vuole assorbire la madre e vuole esserne assorbito, vuole sciogliersi in lei e dissolverla – così preservandola per sempre – nel suo stesso corpo. La confusione identitaria non è temuta e rischiata bensì desiderata e tenacemente perpetrata. Sentire la mancanza è una condizione insuperabile nonché biunivoca: «Mattia non solo sente la mancanza di sua madre, ma sa che lei, ovunque sia, qualunque cosa sia – puro spirito, energia, pensiero, nulla assoluto – avverte (in misura ancora maggiore, eterna) la mancanza di lui».

Siamo oltre ogni vincolo razionale, dunque esattamente nel luogo in cui la letteratura deve avventurarsi. Lo stesso luogo perlustrato anche in Geologia di un padre – ancora un libro dove chi genera è un continente e chi è stato generato usa la scrittura come una bussola –, quando Valerio Magrelli scrive: «Mi guardo attraverso i suoi occhi: ci siamo morti entrambi, reciprocamente». E poco oltre: «Morendo, lui ha perso suo figlio».

E dunque, se la fine di chi ci ha generati è una vertigine, se non essere più percepiti dalla madre ci fa scomparire a noi stessi, allora inventare – invenire, trovare, scoprire – è un modo per coesistere con la fine medesima. Bellissimo ed emblematico in tal senso ciò che accade nel tempo minimo e infinito che precede la morte, quando Mattia legge un libro alla donna che accanto a lui è sprofondata nell’incoscienza: «Il figlio immagina le frasi da lui pronunciate riempirle il corpo. Toccarsi tra loro, urtarsi – le lettere che s’agganciano, che formano organi di sintassi, intestini grammaticali.

Le parole si infrangono e ricombinano come solo le onde. Mescolandosi, danno origine a termini nuovi. Una seconda circolazione sanguigna che percorre il corpo della madre e lo rigenera». L’invenzione della madre è un romanzo negromante in cui la scrittura è colonna vertebrale della mancanza. Ed è un romanzo che per duecentocinquanta pagine, pur non facendo altro che mettere in scena una lingua mite e attenta, si trattiene dal pronunciare una singola specifica parola, una parola-ordigno impudica e perfetta, originaria e insostenibile, l’articolazione elementare delle labbra che si schiudono e si richiudono e di nuovo si schiudono per dare alla luce, dalla bocca, il suono primo in cui ogni madre è nutrimento e dubbio. Una parola che, a forza di venire taciuta, viene poco a poco guadagnata, meritata, resa possibile e necessaria soltanto in conclusione del libro. Nel momento in cui comprendiamo che l’assedio non può avere termine e che la letteratura – ciò che usiamo per prenderci cura dell’incurabile – serve a renderlo illimitato.