Dal Kurdistan a Roma, «Sotto assedio». Un convegno, al dipartimento di Architettura di Roma 3, lunedì prossimo, 30 maggio, tornerà a mettere al centro il carattere paradigmatico e globale della questione curda. «Guerriglia urbana, gentrificazione e sviluppo neoliberale» è il tema dell’incontro; ne parleranno: Francesco Careri e Giorgio Ortolani (Università Roma 3), Fatma Gülmez (Centro culturale curdo Ararat), Peter Lang (autore di Mortal cities), Xerip Siyabend (autore del documentario Nekuje) e Francesco Marilungo (Università di Exeter).

Ed è proprio con quest’ultimo che ne parlo (a Porto San Giorgio, nelle Marche, dove entrambi viviamo) e, oltre che di questo appuntamento, Francesco mi racconta della sua storia e del suo lavoro, in Kurdistan e per quella rivoluzione che è, oggi, una trincea internazionale e il vero obiettivo militare del sultano di Ankara.

La gentrificazione – cioè la trasformazione urbanistica, intesa a tramutare le aree popolari delle città in zone abitative e commerciali per le classi più abbienti – è, per il neoliberismo imperiale dei nostri tempi, ciò che fu la haussmanizzazione di Parigi e delle città francesi nel secondo impero; oggi in Kurdistan, come altrove, la devastazione bellica non è solo strumento di dominio e annientamento politico-militare di un popolo, ma contestualmente è un’opportunità speculativa e di riscrittura antropologica e urbanistica.

Il caso di Diyarbakir (di cui Francesco parlerà al convegno) è emblematico del modello di sviluppo e di dominio neoliberista. «È la “capitale ufficiosa” del Kurdistan e non solo di quello “turco”; è riconosciuta da tutti i curdi come simbolo e punto di riferimento politico. Una storia antica e dolorosa (è stata, tra l’altro uno dei centri logistici, nel 1915, del genocidio armeno); ha, oggi, circa un milione di abitanti, molti dei quali profughi dai villaggi rurali distrutti ed evacuati dai turchi negli anni ’80 e ’90. Il suo “centro antico” (finora uno dei meglio conservati della Mesopotamia e del Medio Oriente e, dal luglio scorso, patrimonio Unesco) ha subito danni enormi dall’aggressione turca degli ultimi mesi».

 

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Un particolare delle mura di basalto di Diyarbakir

 

Marilungo riflette un attimo, e io lo incoraggio a continuare: «Questi danni sono incalcolabili e imperdonabili, certo; ma non è solo di questo che vogliamo parlare il 30. Ciò che ci preoccupa è il destino degli abitanti della città vecchia; l’80% di loro vota per il partito curdo, sono, per lo più, giovani, disoccupati, poveri e la gentrificazione, in questo caso, come in altri, vede coincidere la distruzione politico-culturale dei curdi, con l’apertura di processi speculativi dei “compagni di merende” di Erdogan, con l’islamizzazione e la “turchizzazione” nazionalista.

Da un anno a questa parte, la situazione nel Kurdistan turco sta precipitando (mentre la «fortezza europea», che ha bisogno dell’«amico» Erdogan, a cui ha delegato la gestione dei profughi, tace complice e finge di non vedere la sua guerra sporca, non all’Isis, ma ai curdi); non solo non si parla più di alcun «processo di pace» tra lo stato turco e il Pkk, ma la questione del califfato islamico è utilizzata – come ben sa chi legge questo giornale – da Erdogan, per una sorta di «soluzione finale» della questione curda. Diyarbakir è parte essenziale di questo progetto, non solo per il valore simbolico e identitario, ma anche perché è uno dei centri in cui il Pkk è forte, è «sceso dalle montagne», portando la guerriglia e la rivoluzione in città. La reazione turca è stata di una violenza impressionante e, oggi, coglie la palla al balzo per ottenere, contestualmente, una vittoria militare e la «de-curdizzazione» della città. È, appunto, un esperimento di gentrificazione; da ciò che inizia a trapelare dei piani governativi e secondo molti analisti, la ricostruzione di Diyarbakir vedrà la cancellazione, sul piano urbano, dell’identità curda; sarà tutta in chiave “turco-islamica”, un annientamento del tessuto demografico e urbano della città vecchia, i cui abitanti curdi e appartenenti alle classi subalterne saranno “ricollocati” in altri siti, in palazzoni speculativi».

 

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Diyarbakir, nella Città vecchia si torna a giocare dopo una giornata di scontri tra polizia e militanti del Pkk (LaPresse)

 

 

Francesco parla con passione di una realtà che conosce direttamente. In realtà lui è un «letterato» prestato alla storia politica; ma un «Comenius» nel 2011 (dopo uno stage a Istanbul), gli ha consentito di vivere e lavorare, per due anni, a Diyarbakir, «questa città affascinante e sofferente, come – aggiunge – le sue mura di basalto; ma irrequieta e viva, teatro (ieri e ancor più oggi) di un conflitto politico e culturale fortissimo; con scontri di piazza all’ordine del giorno, con quasi la metà della sua estensione occupata da strutture militari e sede di una delle peggiori prigioni politiche del mondo, che dopo il golpe degli anni ’80 fu tristemente conosciuta per le torture riservate ai prigionieri curdi.

Mehmed Uzun (capostipite della letteratura curda contemporanea) l’ha definita «la capitale di un popolo oppresso». Tuttavia resiste, vive di partecipazione quotidiana, di raduni musicali e festival cinematografici, di reading letterari in curdo, di forum dei popoli oppressi di tutto il mondo (baschi, palestinesi, indios, tamil, irlandesi)».

In quel periodo, in una città in cui non può più tornare (perché dichiarato indesiderato dal governo turco), Francesco, mentre faceva da guida a giornalisti e fotoreporter europei e di tutto il mondo, ha conosciuto un’altra realtà ed un’altra drammatica minaccia: Hasankeyf, sulla stessa sponda del Tigri. Un gioiello incastonato nella pietra, con oltre diecimila anni di storia. «Una diga – progettata negli anni ’60 e ormai ultimata – ne minaccia la distruzione. La città è abitata da curdi e arabi e il governo ha già costruito una new town in cui deportare gli abitanti, costringendoli a indebitarsi per comprare le nuove case». Da quella esperienza, con due amici italiani, è nato un documentario – This was Hasankeyf (per la regia di Tommaso Vitali) – che sta girando diversi festival internazionali. Lo stesso progetto di ricerca che Marilungo sta sviluppando, per l’Università di Exeter (nel Devon, zone amate sia da Virginia Wolf che, per tornare alle sue origini fermane, da Joyce Lussu) – «uno dei pochi atenei al mondo ad avere un dipartimento di Studi Curdi» mi dice – riguarda le rappresentazioni letterarie di Diyarbakir e lo scontro di “appropriazione” di quella città. «Dai riti nazionali turchi, alle scuole intitolate ai soldati caduti nella guerra contro i “terroristi” curdi, ai monumenti ad Ataturk “padre della Patria”, tutto racconta del vestito nazionalista che la Turchia ha, da sempre, cercato di cucire attorno a una città plurale, al fine di cancellarne la sua identità “altra”; e Erdogan – alleato e finanziato dall’Unione Europea – continuando sulla stessa strada, trasformando il cuore urbano del blocco sociale che è il suo principale oppositore, in un Eldorado degli investimenti neoliberali in salsa neo-ottomana. La Municipalità – eletta da una schiacciante maggioranza curda – risponde, a volte, con altrettanta retorica nazionale e identitaria; cerca di trasformare il volto della città in maniere più affini ai suoi abitanti, riscopre il patrimonio multietnico della città – in particolare quello armeno – sdogana l’uso della lingua curda, attraverso monumenti e ritualità costruisce una rappresentazione spaziale della memoria traumatica del popolo curdo. Orgoglio, repressione e, oggi, la guerra sempre più devastante, dominano lo spazio urbano. La letteratura turca rappresenta Diyarbakir, orientalisticamente, come una città esotica ma arretrata, da “civilizzare” con l’ottica, cioè, tipica del colonialismo che, da sempre, unisce i due volti del paternalismo e della violenza repressiva; «del resto – suggerisce Francesco – anche i sionisti dipingevano così la Palestina, ancor prima di impossessarsene, come una donna bella, ma «sposata a un altro uomo», per citare il famoso libro di Ghada Karmi. La letteratura curda, invece, tenta di coglierne il cuore anticoloniale; qui Diyarbakir diventa luogo della repressione e dell’assimilazione, ma anche dell’orgoglio e della redenzione».

Periferia da normalizzare, per i turchi, insomma, e cuore vitale della nazione, per i curdi. Marilungo, che lavorerà, nei prossimi mesi, a tradurre romanzi e poesie della letteratura curda contemporanea («che circolano pochissimo in Europa e per niente in Italia», mi dice), ha tradotto, l’anno scorso, un libro di Arzu Demir, La rivoluzione del Rojava, per la Red Star Press (una piccola, ma combattiva Casa editrice). Demir è una giornalista – una delle tante – che è oggi sotto processo e che, nella spirale autocratica di Erdogan, rischia moltissimo. Il testo è stato proibito e ritirato da tutte le librerie del Paese. «È un testo importante – dice Marilungo – aiuta a capire anche gli aspetti amministrativi del Rojava, ne illumina i nodi ideologici e storici. Nello stesso contesto in cui Assad, l’Isis, la Turchia e gli interventi imperialisti (tanto americani, quanto russi) si fronteggiano e, a volte, sotto pelle si alleano, hai anche uno degli esperimenti politici rivoluzionari più interessanti della Terra. Nel vuoto di potere siriano, il marxismo partecipativo di Ocalan, sempre più ispirato dall’anarchismo di Murray Bookchin, ha fondato radici di equità sociale, laicità culturale, uguaglianza di genere; attraverso fasi deliberative quasi maniacalmente attente alla partecipazione dal basso (dalle comuni di quartiere o di villaggio). C’è, certo (e per fortuna), l’eroismo delle guerrigliere che fronteggiano l’Isis, ma è un processo radicato e complesso a dare forza a quella rivoluzione e lotta di resistenza. Il Rojava – come spiega benissimo Arzu Demir – sta ponendo, da una piccola regione del Medio Oriente, una questione assai più generale alle nostre democrazie, sempre più incapaci di rappresentanza partecipativa». La lotta dei curdi oggi, insomma, come quella palestinese negli ultimi decenni del Novecento, con il suo originale impasto di laicità e marxismo, con le questioni urbanistiche, identitarie e politiche, è un prisma essenziale del futuro, è una vera e propria rivoluzione e non una romantica e antistorica resistenza.

Mentre ascolto e guardo parlare questo ragazzo poco più che trentenne (nato mentre bloccavamo la base di Comiso, studioso, padre e, naturalmente, precario), sento la sua passione colta e intelligente e non posso non pensare a un altro giovane ricercatore che, su questo giornale, ci raccontava l’Egitto e le sue lotte sociali; le similitudini, per fortuna, si fermano qui. Sul numero de il manifesto di sabato 21 maggio, Francesco mi dice: «Sembra fatto per me, la crisi dei trentenni in prima pagina e le guerrigliere di Sinjar su Alias». Ma di trentenni (o anche più giovani) che vogliono raccontare le lotte del mondo, ce ne sono tanti. Francesco, nonostante sia padre da così poco tempo, non si vuole fermare e, spero, tra qualche mese potrà farci leggere in italiano una letteratura che ci aiuterà ad amare, ancor più, un popolo eroico, martoriato e capace ancora di guardare al futuro. Il convegno di Roma è una tappa utile e importante, che partendo dal Kurdistan turco, ci può spiegare i meccanismi di trasformazione antropologica del capitalismo del XXI secolo.