Tanto, ma tanto atteso – sono passati quasi trent’anni dai fatti -, il mandato di arresto internazionale emesso dalla magistratura del Burkina Faso contro l’ex presidente Compaoré per l’assassinio di Thomas Sankara non deve aver sorpreso neanche il suo diretto e più naturale destinatario. Anche perché la nuova situazione politica venutasi a creare a Ouagadougou dopo il voto dello scorso 29 novembre – il nuovo presidente Roch Marc Christian Kaboré giurerà il prossimo 29 dicembre – si può definitivamente considerare a lui avversa.

Blaise Compaoré
Blaise Compaoré

Ma la scritta wanted sotto la foto segnaletica di Compaoré rappresenta comunque un primo sigillo sulla vicenda, una delle più tristi dell’Africa post-coloniale, confermando alla buon’ora quanto risultava evidente anche ai meno sankaristi tra i burkinabè e gli osservatori internazionali. E cioè la responsabilità diretta nell’eliminazione del presidente Sankara, durante il golpe del 1987, da parte del suo ex sodale, l’uomo che in seguito ha regnato per 27 lunghissimi anni sulla «Terra degli uomini integri», disintegrandola. Ovvero demolendo la rivoluzione «democratica e popolare», così spavaldamente in anticipo sui tempi (scuole, ospedali, terra, cultura per tutti, spesa pubblica al minimo, corruzione zero, eco-marxismo radicale, panafricanismo, no-globalismo ante litteram), che Sankara aveva cominciato a realizzare, imprimendo alle vicende dell’ex Alto Volta uno scatto bruciante in avanti che il resto del continente poteva solo sognarsi.

Saluti dalla Costa d’Avorio

Dal giorno della sua deposizione Compaoré non è andato poi così lontano: il 31 ottobre 2014 (all’indomani di una rivolta popolare e istituzionale in cui le organizzazioni della società civile hanno avuto un ruolo paragonabile a quello svolto da esercito e partiti di opposizione) ha trovato rifugio nella vicina Costa d’Avorio, accolto dal suo vecchio amico e ormai ex omologo ivoriano, Alassane Ouattara. Il quale però intrattiene cordiali rapporti anche con Kaboré, il nuovo capo di stato del Burkina, che non per niente in passato è stato ministro alle dipendenze di Compaoré. Ci si chiede ora come Ouattara potrà trarsi d’impaccio, consegnando l’ingombrante ospite al nuovo governo burkinabè o rifiutandosi di farlo. Sempre che Compaoré non si sia già volatilizzato, diretto verso lidi più sicuri.

Gilbert Dienderé
Gilbert Dienderé

Sia come sia, sembra messo peggio di lui il generale che un tempo comandava i suoi pretoriani. Gilbert Djenderé è il principale artefice del maldestro tentativo di colpo di stato che tra il 16 e il 17 settembre di quest’anno ha infiammato la transizione politica seguita alla cacciata di Compaoré. Una fase sfociata poi, con lieve ritardo rispetto ai tempi previsti, nelle prime elezioni democratiche del Burkina. Di questo la giustizia del nuovo corso burkinabè è determinata a chiedergli conto, con 14 capi di accusa (negli scontri durante il tentativo di putsch morirono almeno 14 persone), tra i quali spicca quello che parla senza mezzi termini di «crimini contro l’umanità».

Nel frattempo il nuovo impulso dato alle indagini sulla morte di Sankara – è stata anche riesumata la salma, anche se le condizioni dei resti non hanno consentito di individuare tracce genetiche di alcun tipo – ha portato ad incriminare Dienderé, il generale Djibril Bassole (ex ministro degli Esteri) e altri tre esponenti delle forze armate rimasti fedeli all’ex padre padrone del paese anche per l’assassinio del leader rivoluzionario.

Il mandato di arresto per Compaoré era pronto da tempo, fanno sapere i legali della famiglia Sankara («passi avanti verso la verità», ha commentato la vedova Mariam Sankara), ma si è forse voluto aspettare per dare un segno alla cerimonia di investitura con cui la prossima settimana Kaboré inizierà il suo mandato.

Sul suo tavolo il dossier Sankara dovrebbe comunque restare in vista. Da lì passa anche la credibilità del nuovo corso e la possibilità di innescare un processo di riconciliazione nazionale. Ci si aspetta risposte anche sull’eliminazione del giornalista Norbert Zongo, simbolo della libertà di espressione ferita a morte sotto il regime di Compaoré.