L’aspirina dei Neanderthal
Pleistocene Tracce di legno di pioppo ritrovate tra i loro denti lasciano supporre che fosse noto l'effetto analgesico dell'acido acetilsalicilico. Senza rudimenti di medicina, vista la loro sofferenza per ferite e traumi, più alta di altri animali predatori, non sarebbero potuti sopravvivere per duecentomila anni
Pleistocene Tracce di legno di pioppo ritrovate tra i loro denti lasciano supporre che fosse noto l'effetto analgesico dell'acido acetilsalicilico. Senza rudimenti di medicina, vista la loro sofferenza per ferite e traumi, più alta di altri animali predatori, non sarebbero potuti sopravvivere per duecentomila anni
Nell’Europa del tardo pleistocene, un uomo o una donna di Neanderthal avevano a disposizione molti modi per morire. Si poteva perdere la vita per il freddo o di parto, aggrediti da una iena o pestati da un altro Homo, per mancanza di vitamine o per un piccolo infortunio. Per una specie bipede che cacciava animali grandi e pericolosi a piccoli gruppi, anche rompersi un piede poteva diventare fatale.
PER LORO FORTUNA, i Neanderthal avevano già inventato la medicina e il welfare, cioè l’abitudine di prendersi cura l’uno dell’altro all’interno del gruppo. Molti ritrovamenti fossili di Homo neanderthal riguardano individui con problemi di salute gravissimi e tuttavia morti in tarda età. Da queste scoperte, gli scienziati hanno dedotto che l’organizzazione sociale dei Neanderthal prevedeva cure mediche per i più deboli. Nell’ultimo numero della rivista Quaternary Science Review, una ricerca della paleontologa Penny Spikins del suo gruppo di ricerca all’università britannica di York analizza sessant’anni di ritrovamenti e dà una spiegazione della nascita della medicina e della cura tra i Neanderthal.
Occuparsi di un familiare malato oggi può sembrarci un gesto talmente naturale da essere innato. Al tempo dei Neanderthal, invece, poteva costare la vita. I Neanderthal vivevano in gruppi di poche decine di individui che si spostavano spesso alla ricerca di cibo. Per nutrirsi, cacciavano animali anche di grande taglia, intrappolandoli in avvallamenti e dirupi. L’infortunio di un membro del gruppo avrebbe ostacolato gli spostamenti e sottratto risorse preziose per la collettività.
D’altra parte, la sopravvivenza di un membro anziano del gruppo permette la conservazione e la trasmissione di conoscenze preziose da una generazione all’altra. Inoltre, poter guarire dagli infortuni permette di adottare strategie più rischiose. Una delle caratteristiche dei Neanderthal e della mitologia che li circonda era proprio il loro avventuroso stile di vita. Cacciavano a mani nude animali molto più grandi di loro, come mammut e rinoceronti.
NE RISULTAVA un tasso di infortuni elevatissimo. Secondo uno studio del giapponese Wataru Nakahashi del 2017, tra l’80 e il 95% dei Neanderthal aveva sofferto in vita di ferite traumatiche di varia gravità. Si tratta di una percentuale elevatissima se confrontata con il tasso di infortuni rilevato in altre popolazioni di cacciatori-raccoglitori, ma anche rispetto ad altri animali predatori, come lupi o uccelli rapaci. Senza qualche rudimento di medicina, uno stile di vita così pericoloso sarebbe stato suicida. Invece i Neanderthal sopravvissero per circa duecentomila anni.
«Le cure sanitarie sono normalmente interpretate come una pratica culturale complessa senza una chiara funzione adattativa – spiega Spikins -. Invece, molti esempi di cura della salute tra i Neanderthal erano poco dispendiose e molto efficaci nel ridurre la mortalità».
OVVIAMENTE, dopo decine di migliaia di anni i resti riguardano ossa e denti e le informazioni che si possono ottenere riguardano soprattutto queste parti del corpo. Ad esempio, nelle «cartelle cliniche» studiate da Penny Spikins e colleghi figura il caso dell’iracheno «Shanidar 1» (i Neanderthal prendono il nome dal luogo e dall’ordine cronologico del ritrovamento), che soffriva nell’ordine di un arto paralizzato e atrofizzato, un braccio fratturato e amputato, un’infezione alla clavicola, una frattura del quinto metatarso, artrosi in vari punti, una tibia deformata e varie lesioni sul cranio. Eppure, lo spericolato «Shanidar 1» è morto a un’età compresa tra i 35 e i 50 anni, all’incirca l’aspettativa di vita media di un iracheno degli anni ’60.
Secondo la bioarcheologa Lorna Tilley dell’università di Canberra, questa longevità si spiega anche con la capacità dei Neanderthal di calcolare le probabilità di recupero prima di decidere se investire risorse del gruppo nel tentativo di salvare un suo membro. Se l’individuo infortunato non era in grado di muoversi autonomamente, il gruppo poteva fermarsi per qualche tempo e occuparsi del malato fino al recupero.
Negli ultimi dieci anni, i denti rinvenuti negli scavi hanno permesso di compiere eccezionali scoperte sulle abitudini dei Neanderthal. Essendo un organo decisivo per la sopravvivenza prima dell’invenzione del frullatore, il genere Homo ha imparato a curarli molto prima di Neanderthal: i primi interventi di odontoiatria risalgono a un milione e mezzo di anni fa. Il dentifricio anti-placca, invece, è un’invenzione molto più recente, per la fortuna dei paleontologi: nei depositi di tartaro rimangono tracce preziose dell’alimentazione dei Neanderthal.
UNA DELLE SOSTANZE più interessanti è stata identificata dalla microbiologa Laura Weyrich che, nel 2017, ha analizzato i denti appartenuti ai Neanderthal belgi e spagnoli. Oltre ai batteri responsabili di un ascesso dentale, Weyrich ha trovato anche tracce del legno di pioppo. Non essendo commestibile, l’ipotesi più probabile è che già all’epoca fosse noto l’effetto analgesico dell’acido acetilsalicilico, il principio attivo dell’aspirina e di cui il pioppo è ricco.
La bassa incidenza delle infezioni tra i Neanderthal si spiega invece con la capacità di curare le ferite. «Gli Inuit uccidono i lemming per usare la pelle per proteggere le ferite – scrive Spikins -. I Neanderthal potrebbero aver usato l’ocra come antisettico».
Infine, le dimensioni del cranio e del bacino suggeriscono che anche tra di loro la donna fosse assistita durante il parto. Avere un cervello di grandi dimensioni, come avveniva nei Neanderthal e in Homo sapiens, costituisce un vantaggio cognitivo. Aumenta però la difficoltà e i rischi del parto, rendendo necessaria la collaborazione di altre donne. Solo grazie alle ostetriche, il cervello dei Neanderthal ha potuto aumentare di volume e permettere lo sviluppo di attività complesse come il linguaggio.
Purtroppo, non rimangono tracce di altri organi. «Le evidenze archeologiche visibili probabilmente sono solo la punta dell’iceberg delle pratiche sanitarie più comuni», scrive Spikins.
RIMANE DA CAPIRE se anche Homo sapiens, che per diverse migliaia di anni convisse con Neanderthal, avesse competenze simili, e se tra le due popolazioni si sia verificato uno scambio culturale. È molto probabile che ciò sia avvenuto, perché l’analisi genetica dei resti dimostra che i geni di Neanderthal e sapiens si siano mescolati per via sessuale almeno in due momenti. In ogni caso, la salute dei nostri antenati deve molto ai Neanderthal.
Una ricerca pubblicata a inizio ottobre sulla rivista Cell da David Enard (università dell’Arizona) e Dmitri Petrov (università di Stanford, California) mostra che nel Dna degli attuali europei sono presenti 152 geni già rilevati in quello di Neanderthal e coinvolti nella risposta immunitaria contro virus come Hiv, epatite C e influenza A.
Secondo Enard, «i geni di Neanderthal probabilmente ci protessero contro i virus incontrati dai nostri antenati quando uscirono dall’Africa». L’accoppiamento con i Neanderthal potrebbe aver permesso loro (cioè a noi) di resistere a quelle malattie e diffonderci su tutto il pianeta.
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