Il Physiologus è un piccolo trattato scritto ad Alessandria d’Egitto tra II e IV secolo dopo Cristo, in ambiente prossimo alla gnosi cristiana. I suoi brevi e non numerosi paragrafi (da 38 a 48) sono stati prontamente tradotti in latino, hanno così attraversato i secoli e nel Medioevo si sono uniti alla materia dei repertori e delle enciclopedie (i diversi specula).
Intrecciandosi con la passione dell’età di mezzo per il prodigioso, il Physiologus ha fatto germogliare nella letteratura romanza quel filone conosciuto sotto la denominazione di Bestiari, in cui il numero dei paragrafi (e degli animali fantastici e non) in alcune opere aumentò a dismisura.

Dodici volte notte

Al capitolo 9 del Fisiologo, traduzione curata da Francesco Zambon nel 1975, subito dopo l’upupa e prima della vipera, ci viene presentato un animale bizzarro: l’onagro o asino selvatico, che tronca con un morso i testicoli dei maschi per impedirgli di generare ma, in buona sostanza, per non avere distrazioni mentre guidano le greggi. Zambon ricorda en passant che la pratica della castrazione, ossessivamente presente nel Fisiologo, dipende quasi certamente dalla coeva diffusione delle evirazioni (e delle auto-evirazioni: si racconta che il saggio Origene si sottopose a questo cimento in vista del Regno dei Cieli).
L’onagro ha l’onore di un altro capitolo nel Fisiologo, il 45, che condivide però con la scimmia. L’onagro, ospite delle regge (chissà in quale strano serraglio) segnala alla corte che è giunto l’equinozio di primavera e lo fa ragliando dodici volte; la scimmia invece orina dodici volte. Perché lo fa? È evidente: siccome è il demonio (molti animali ne sono figura) segnala che il numero delle ore notturne – quelle che piacciono a lui e alla sua gente – è stato eguagliato da quelle diurne. Ma quel giorno di primavera per la tradizione gnostica, guarda caso, è il giorno del martirio di Cristo, vittoria e sconfitta al tempo stesso per il Signore delle Tenebre. Peraltro, gli Egiziani odiavano il suono del raglio dell’asino, quella associazione terrificante di una nota altissima con una bassissima e infatti Seth, l’uccisore di Osiride, veniva raffigurato come un asino rosso.
La storia delle immagini è naturalmente molto sbilanciata sull’asino domestico e sono innumerevoli gli asini comprimari in Sacrifici di Abramo, Entrate in Gerusalemme, Fughe in Egitto. In questi dipinti non raglia mai, se ne sta lì, fermo, inespressivo, mangiucchiando talvolta arbusti spinosi. C’è solo un soggetto nella pittura sacra di tradizione cristiana in cui un asino raglia in modo sgraziato, scomposto oppure appena accennato e sono sempre Natività di Cristo, o Adorazioni dei Magi, eventi cronologicamente vicini.
Per dare un senso a questo comportamento così poco rispettoso, forse la portata simbolica del raglio dell’onagro gnostico-alessandrino può dare una mano.
Soprattutto, alla luce del rapporto con il partner zoologico dell’asino, il bue (la presenza dei due animali nel presepe deriva dai vangeli apocrifi, e il filologico papa Ratzinger avrebbe preferito forse presepi senza bue e asinello ma s’è dovuto rassegnare alla potenza dell’immaginario collettivo). Ebbene il bue, quasi sempre «bovinamente», adora, invece l’asino, ogni tanto, raglia.
Se ci mettiamo che nei commenti dei Padri della Chiesa molto spesso l’asino viene identificato con i Giudei e il bue con i Gentili, possiamo individuare un sottile filo rosso nell’antigiudaismo che, come un fiume carsico, percorre molta letteratura cristiana delle origini (e non solo).
Così l’asino, che Cristo, come un antico Giudice di Israele, ha scelto per entrare in Gerusalemme, finisce nel Medioevo per essere invece la cavalcatura della cieca Sinagoga nelle sue dispute con l’Ecclesia. Non solo ignoranza – e tenebre – ma colpevole rifiuto che inizia dalla nascita di colui che morirà (all’equinozio di primavera) lasciando in eredità al mondo la sua luce.
Se Eugenio Battisti, nella sua magistrale monografia su Piero della Francesca del 1971, commentando la presenza di un asino ragliante nella Natività di Londra lo aveva messo in relazione con un segno apocalittico (il quindicesimo, in cui gli animali invocano pietà alla fine dei tempi), Erwin Panofsky, nel suo Early Nederlandish Painting del 1953, vedeva nel raglio proprio una condanna della Sinagoga. E certo gli asini raglianti più sgraziati sono senza dubbio nordici.
Purtroppo, non si riesce a vedere bene in foto, bisogna andare a vederlo a Siena, ma c’è una mascella d’asino aperta in un raglio, inquietantissima, nel buio della capanna in secondo piano in un’altra strana Natività, quella di Lorenzo Lotto, che non sarà quel «genio inquieto» della vulgata mediatica, ma pittore bizzarro senz’altro era. In primo piano c’è Salome, altro personaggio dei Vangeli apocrifi, l’ostetrica un po’ ingenua che aveva voluto fare un’ispezione ginecologica a Maria, non credendo al parto di una vergine.

>Nel deserto salato

L’ispezione viene fatta, ma le sue mani incredule e sacrileghe si trasformano in moncherini. Solo dopo che la donna, abiurando la sua appartenenza alla religione giudaica, riconosce la «grande luce» venuta al mondo, riguadagna le mani. L’asino al buio invece ci rimane, e protesta.
Nel libro di Giobbe, dopo ben 38 paragrafi spesi a cercare una spiegazione delle disgrazie che gli sono piovute addosso, pieno di piaghe e ormai allo stremo, in mezzo ad una tempesta, Giobbe ode la voce di Jahvé che gli chiede retoricamente «Chi fa andare libero l’onagro, chi scioglie i legami dell’asino selvatico, cui ho assegnato la steppa per residenza e per soggiorno il deserto salato? Ride del chiasso della città, e alle grida di chi lo sprona non porge orecchio. I luoghi montani circostanti sono il suo pascolo e va in cerca del verde».
Un essere che basta a se stesso, che riceve direttamente da Dio il suo sostentamento. In uno dei quadri più belli della pittura italiana, il San Francesco della Frick Collection di New York di Giovanni Bellini, forse quell’asino (le cui orecchie sono nella posizione di «ascolto») non è un semplice esemplare domestico che ha portato l’alter Christus nella sua dimora eremitica, ma un asino selvatico, compagno eremita, che ride del chiasso della città e partecipa – nel suo piccolo – all’indipendenza di una visione in solitaria.