Seduti su una panchina tra il Duomo e il Battistero di Parma, abbiamo intervistato Albertina Soliani, Senatrice del Partito democratico della Repubblica Italiana della XIV, XV e XVI Legislatura ed oggi Presidente dell’Associazione Amicizia Italia-Birmania. Abbiamo parlato a lungo di Aung San Suu Kyi, del Myanmar e di ciò che sta accadendo oggi nel Paese.

Senatrice, da molto tempo lei è legata al Myanmar: cosa prova nel vedere ciò che sta accadendo al Paese e cosa pensa del popolo birmano?

Ho molti amici in Myanmar e il legame di amicizia che mi unisce a loro mi porta a provare un profondo dolore per ciò che sta accadendo nel Paese. Vede, il popolo birmano è formato da persone che vivono da molto tempo in situazioni difficili. In Myanmar c’è la povertà, i servizi sono scarsi e non ci sono scuole adeguate, ma, nonostante questo, tutte le volte che sono stata in Myanmar ho incontrato persone che mi hanno saputo accogliere con il sorriso. La gioia che queste persone sono in grado di trasmettere è sicuramente la caratteristica più straordinaria del popolo birmano.

Tuttavia, vi sono ancora diverse contraddizioni tra i birmani: da una parte è un popolo profondamente legato alla spiritualità e alle radici del buddismo, ma dall’altra parte la violenza è insita nella storia del Myanmar e tra la gente. Pensiamo a quello che sta succedendo oggi, dove non tutto il popolo è con i manifestanti: ci sono monaci che sono dalla parte dei militari e segnalano la presenza dei manifestanti in modo che questi vengano arrestati. Perché fare questo? Perché non c’è ancora una totale coesione tra il popolo? Sono argomenti molto complicati e andrebbero analizzati non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello umano. Per capire il Myanmar, bisognerebbe cercare di comprendere perché si sono generate queste contraddizioni e perché non si riesca a trovare la pace tra le diverse etnie e culture presenti nel Paese.

Lei è Presidente dell’Associazione Amicizia Italia – Birmania: ci può raccontare quanto è forte il legame tra Italia e Myanmar e come si è sviluppato il rapporto nel corso degli anni?

A livello personale si è sviluppato un forte legame con la stessa Aung San Suu Kyi che più volte è venuta a trovarci. È una cara amica e le sono molto legata: lei stessa alcuni anni fa mi ha chiesto se avessi preso in considerazione l’idea di trasferirmi in Myanmar, da un po’ ci sto pensando. L’Associazione Amicizia Italia – Birmania, si è sviluppata negli anni grazie all’impegno di molte persone, in primis di Giuseppe Malpeli, un caro amico che è stato profondamente legato al Myanmar.

Ieri come oggi il nostro obiettivo è di intensificare i rapporti di amicizia con il meraviglioso popolo del Myanmar. Abbiamo conosciuto persone straordinarie nei nostri viaggi ed alcuni ragazzi birmani hanno potuto visitare e studiare a Parma: speriamo quindi di continuare su questa strada scandita dalla solidarietà e dall’amore per la democrazia che noi quanto loro possediamo. Per quanto riguarda il rapporto tra i nostri Stati, l’Italia ha un legame di profonda amicizia con il popolo birmano e sono sollevata nel constatare che i nostri diplomatici di stanza nei Paesi asiatici stanno lavorando molto bene per permettere il dialogo tra i rappresentanti del popolo birmano e i Paesi limitrofi che potrebbero appoggiarli.

Come giudica l’atteggiamento generale dei grandi attori internazionali nei confronti dell’attuale situazione in Myanmar? Non le sembra che ad oggi la risposta internazionale sia stata piuttosto debole?

Ci sono state certamente importanti dichiarazioni di condanna ma non espresse da tutti.
Ciò che mi lascia basita è il fatto che gli attori internazionali sembrano paralizzati: perché non riescono a tendere la mano e a dire “possiamo aiutarvi?”. Cosa aspettano per dare un segnale forte? Servono più morti e più atrocità? Penso che già ciò che avvenuto in questi due mesi sia sufficiente per intervenire in modo concreto, non scrivendo solo proclami di solidarietà. Ciò che vedo è la mancanza di fermezza e coesione dal punto di vista di un piano politico. Perché non c’è stato subito un dialogo diretto con Putin o con l’Asean? Perché non è stato chiesto un incontro immediato con Aung San Suu Kyi?

Bastano gli appelli per un suo rilascio? Evidentemente no e dovrebbe essere a questo punto compito degli Stati e degli organi internazionali intervenire in maniera concreta. Le sanzioni sono ovviamente una scelta corretta ma è possibile che l’ONU impieghi tutto questo tempo per mandare un proprio inviato speciale per intavolare un dialogo tra le parti in causa? Ci sono voluti due mesi perché Christine Schraner Burgener potesse raggiungere Bangkok per poter instaurare un dialogo: siamo nel 2021 ma sembra di essere nell’800, quando ci volevano sei mesi per raggiungere un Paese asiatico con cui si volevano instaurare rapporti diplomatici.

L’Italia, insieme ad altri Paesi europei, ha condannato il golpe militare: come attore internazionale, come si può muovere l’Europa per far sentire il proprio peso politico nella questione birmana?

Come dicevo prima, serve l’iniziativa politica. È l’unica arma dell’Europa al di là delle armi e della violenza e noi lo sappiamo bene come Unione Europea dato che abbiamo avuto le terribili esperienze di fascismo e nazismo: il diritto e il processo democratico sono i punti su cui l’Europa deve basare la propria iniziativa politica.

L’atteggiamento dell’Unione Europea dovrebbe essere più deciso ed in generale con maggiore lungimiranza in merito all’area asiatica. Secondo me l’Europa dovrebbe trovare il coraggio di diventare protagonista nel Sud-Est asiatico e invece per ora lascia spazio alla Cina, alla Russia e agli Stati Uniti che già da tempo compreso perfettamente che l’Asia orientale sarà nei prossimi anni la zona dove si intensificheranno gli interessi geopolitici ed economici delle grandi potenze. Purtroppo, mi sembra che per il momento ci sia ancora molta confusione su come muoversi in quella zona del mondo.

Nei giorni scorsi è nato il Governo di Unità Nazionale del Myanmar, formato da alcuni parlamentari della Lega Nazionale per la Democrazia insieme ad altre figure di spicco di alcuni partiti birmani. Quanto è importante che gli Stati riconoscano al più presto questo come governo legittimo?

È fondamentale. Il riconoscimento è il modo migliore per affermare la giustizia non solo per il Myanmar ma anche per gli attori internazionali. Questo Governo di Unità Nazionale è lo strumento di coscienza dato in mano agli attori internazionali e riconoscerlo vorrebbe dire: Sì, siamo con voi.

Il 24 aprile ci sarà un importante summit dei Paesi dell’ASEAN dove parteciperà il generale Min Aung Hluaing: si aspetta una presa di posizione forte da parte dei membri dell’organizzazione oppure teme che si cercherà un accordo con i militari senza tenere conto del Governo di Unità Nazionale?

Sì, mi aspetto una presa di posizione anche perché, qualora non dovesse esserci, sarebbe un suicidio per l’Asean. Il poter affermare un principio di unità tra i suoi membri e non assecondare la destabilizzazione è l’occasione per l’Asean di mostrarsi grande agli occhi del mondo.

In favore dei principi fondamentali del diritto internazionale conviene a questi Paesi fermare la giunta militare e delegittimarla. C’è anche la Cina che potrebbe giocare un ruolo importante, dato che ha affermato di essere pronta ad appoggiare le decisioni dell’Asean.

Staremo a vedere cosa succederà il 24 ma è certo che il generale Min Aung Hluaing non sarà felice di trovarsi a Jakarta, specie dopo tutte le atrocità che ha commesso in passato nei confronti del popolo musulmano (l’Indonesia ospita la più grande popolazione musulmana al mondo, oltre 200 milioni di credenti).

La leader birmana Aung San Suu Kyi per il momento è ancora sotto custodia dei militari. Lei ha avuto modo di conoscerla nel 2013 e da lì è nata un’amicizia. Come la descriverebbe? Crede che dopo tutto quello che ha passato negli ultimi trent’anni, possa avere ancora le forze per combattere questa nuova battaglia per salvare il proprio Paese?

È una donna straordinaria, forte e decisa. Non ho una, ma due parole per descriverla: una di queste è il termine legacy. Aung San Suu Kyi ha un fortissimo legame di eredità che la unisce al suo popolo: lei si identifica in loro e il popolo si identifica in lei tant’è che la chiamano “Madre Suu”.

Per noi occidentali è difficile comprendere questo tipo di legame perché ormai è svanito, non credo che in Europa oggi abbiamo una personalità per cui potremmo sentire un legame così forte.

L’altra parola che mi viene in mente per descriverla è integrità: per lei tutto è concentrato all’interno della moralità. Lei può aver vissuto tutti i drammi del mondo, può avere mille preoccupazioni ed impegni ma quando ti guarda e ti parla, esisti solo tu per lei. Una persona così ha il diritto di essere la leader del Myanmar, nonostante negli ultimi anni il mondo occidentale l’abbia più volte criticata.
Lei però di questo non è interessata e non prova alcun tipo di ripensamento per le sue scelte: sa bene che tutto ciò che ha fatto, lo ha fatto per il bene del suo popolo.

Come già accaduto in altri Paesi del Sud-Est asiatico, la Generazione Z è divenuta il simbolo della resistenza e del sentimento democratico. La forza di questi giovani permette di sperare ancora nel sogno democratico per il Myanmar?

Dipende da molti fattori esterni. I giovani birmani si stanno dimostrando molto determinati e coesi ma la storia ha visto anche in passato grandi movimenti eroici, poi colpiti e messi da parte, quindi tutto è possibile. Ma non c’è dubbio che la generazione giovanile di queste aree, Hong Kong, Myanmar, Thailandia e del sud-est asiatico in generale sentono allo stesso modo la necessità di essere liberi e di non essere più dei sudditi.

Sarà una battaglia difficile ma oggi i giovani hanno la tecnologia dalla loro parte: è possibile che il web permetta di creare sempre di più un bacino formato da combattenti solidali, spinti dal desiderio di libertà e democrazia. Conosco bene alcuni giovani birmani: li abbiamo ospitati a Parma, abbiamo parlato molto di politica e conoscono bene le possibilità che abbiamo qui in occidente, in un Paese democratico come il nostro. Non sono diversi da noi, anche loro desiderano la libertà e faranno di tutto per ottenerla.