L’ultima produzione letteraria e saggistica di Paolo Volponi, è incentrata sul conflitto tra le nozioni di «naturale» e «artificiale», che lui declinava anche nell’economia tra mondo dell’industria, del produrre materiale, e quello intangibile del capitalismo finanziario che stava cambiando gli scenari geopolitici.
«Ciò che mi domando» scrive nel lontano 1994, «è: come mai siamo giunti al punto che la sola materia materiale diventasse il denaro. E come si fosse annullata la profondità del mondo».

DENTRO QUESTO CONTESTO di società, quella antica, arcaica – il paesaggio, gli alberi, i fiumi, gli animali – e quella ormai del villaggio globale e dell’esperienza digitale, sta anche la riflessione dell’ultimo libro di Tiziano Fratus, Interrestràre (Lindau, pp. 264, euro 19), un libro di frammenti, meditazioni, illuminazioni anche sul guardare, perché «il vedere viene prima delle parole», come scriveva John Berger, e giocato su due concetti fondamentali e contrapposti, «mondo visibile» e «mondo invisibile», tra essere e apparire, che al naturale e all’artificiale si ricollegano, e la capacità di sentire, percepire il creaturale in un mondo che tutto trasforma in una ininterrotta fiction.
E allora torna in mente l’antico proverbio orientale il quale dice che quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito, soprattutto in città, paesi, luoghi, dove la maggior parte della gente continua a guardare negli schermi degli smartphone ma non riesce più a vedere gli occhi di uno sconosciuto, la bellezza del mare in burrasca o l’azzurro del cielo. La «fame di natura» dell’autore contrariamente lo porta, appunto, a «interrestràre», un neologismo eccentrico e insieme la mescolanza di incanto, terrestre, camminare e meditare, elementi che sviluppano un sentimento di stupore camminando nei luoghi struggenti e di rara bellezza della natura più estrema e selvaggia, perché, come ci ricorda, «c’è chi appartiene a un flusso, e chi si isola».

QUESTA PRATICA QUOTIDIANA di ascolto sovversiva, quella di cercare nella natura l’unicità, come quella degli alberi, di cui «la perdita di ciascuno di loro è l’estinzione di qualcosa di irripetibile» presto incontra il sacro, quella «religiosità della terra» non solo cara a Duccio Demetrio, più volte citato, ma a tutta a una costellazione di pensatori eretici che da Enzo Bianchi alla teologa Adriana Zarri e alla sua «condizione eremitica» si riconnettono all’esperienza francescana, e nel «fare del proprio corpo la propria chiesa» alle vite fragili tramandate dal Cristo dei Vangeli.
Il libro è diviso in sezioni distinte fatti di brevi capitoli, da Costellazioni in prosa, in versi, stagionali e antiche come i libri di meditazione sapienziale, e intreccia pensieri filosofici, osservazioni sulla natura, esperienze di vita, ma il suo pregio maggiore è quello di non strizzare l’occhio al new age ma rimanere sempre dentro un racconto contemporaneo con uno sguardo politico, dove appunto l’eresia eremitica è il controcanto all’individualismo furioso e consumistico del social solo in un’epoca nefasta dove «l’esibizione del sentimento è diventata prassi». Un’epoca dove «l’ossessione per l’importanza» alimenta l’intellettuale autoriferito, il politico narciso, e dove «l’uomo unico, o potremmo dire univoco», come ci ricorda Fratus, «economico, il compratore seriale, ha prevalso sul cittadino».

IL RISULTATO CERCATO da questa pratica liberatoria è alleggerirsi, riconnetterci con l’umano, «alleggerire nel tempo il vostro bagaglio. I vostri pensieri. La vostra persona. Siamo ossessionati dall’accumulo, di informazioni, di occasioni, di amori, di oggetti. Possedere denaro e possedere abitazioni, occupare ruoli e diventare grandi persone. Poi i corpi si rivoltano, a noi, a questo mondo, a tutto quel che siamo. Ci ammaliamo e tutto si sgretola». Quella vita da criceti che proprio Paolo Volponi sigillò in una fulminante istantanea della condizione dell’uomo contemporaneo nel dialogo con Francesco Leonetti Il leone e la volpe: «Siamo infettati, contaminati, appestati. E corriamo».