È possibile raccontare in un centinaio appena di pagine la parabola del Novecento, fissare l’istantanea grondante dolore della sua anima, ricapitolare la somma delle sue promesse e dei suoi tradimenti, le illusioni smaglianti e le delusioni cocenti, la speranza e la ferocia? Ed è possibile farlo guardando la storia dal basso, con gli occhi di chi la ha subìta e sofferta e ne ha pagato i prezzi più salati ma ha anche creduto di potersene rendere protagonista, con la pazienza tenace della fede nel progresso o con l’impazienza furiosa di chi cercava una rivoluzione che restituisse tutto e subito a chi non aveva avuto mai niente? Barbara Balzerani dimostra in questo libro breve e profondissimo che lo si può fare.

Però non basta scrivere molto bene: il requisito è necessario, non sufficiente. Bisogna anche sapere per istinto innato e sapienza acquisita che «dipingere è l’arte di svuotare un quadro», lezione che in Italia ha contato un solo maestro, Luigi Pintor. Occorre calibrare le parole e le emozioni una per una, mai a cuore leggero, mai inseguendo il vezzo dello stile, caricando ogni frase e ogni riflessione di una sofferenza affrontata a viso aperto e di una ricerca tanto ambiziosa quanto coraggiosa. Si deve considerare la scrittura non come mestiere ma come strumento atto a scandagliare sempre a più fondo la propria anima, per cogliervi i riflessi di un’intera epoca.
Lascia che il mare entri (DeriveApprodi, 2014, pp. 96, euro 12.00) è il risultato di questa indagine che parte da sé per arrivare a una realtà comune e generale: un dialogo sospeso nel tempo tra l’autrice, una bisnonna contadina mai conosciuta ma presente da sempre nel suo immaginario, una madre operaia passata dai campi alla fabbrica, dalla miseria dei braccianti al miraggio di affrancarsi da quelle catene antiche grazie alla modernità della catena di montaggio. Tra una vita e l’altra ci passano due guerre, una migrazione, un miracolo economico, una rivoluzione fallita.

Lungo questa parabola di donne forti, corre il filo di un sogno franato, rovinato su quelle (e quelli) che gli avevano affidato la missione di cambiare l’esistenza loro e quella dei loro figli, e ci avevano investito tutto. Faticando la vita in casa mentre gli uomini se la sudavano nei campi. Restando ad aspettare che tornassero (forse) i mariti, spediti in trincea come carne da macello. Migrando non solo da una regione d’Italia a un’altra, ma tra un mondo e uno tutto diverso. Lasciando le cucine per i padiglioni del lavoro salariato. Conquistando a prezzo carissimo brandelli di autonomia come persone e come donne. Alla fine tentando una rivoluzione che rovesciasse per intero lo stato delle cose.

Quel sogno perduto, quel giuramento disatteso, è anche, ma non solo, la rivoluzione. È molto di più. È il progresso. È la fede salvifica nella tecnica come elemento destinato in un modo o nell’altro, col passo lento della sopportazione o con quello accelerato della spallata rivoluzionaria, a redimere la vita di tutti gli anonimi sulla cui testa la storia era abituata a passare senza neppure consultarli.
Lascia che il mare entri è anche la storia di un conflitto, e della sua ricomposizione postuma: tra due donne, o forse tra due generazioni di donne, che hanno combattuto per gli stessi obiettivi, cercato il medesimo riscatto con strumenti diversi e per vie opposte, senza riuscire a riconoscersi se non per attimi fuggenti, e poi subìto lo stesso inganno, patito la stessa sconfitta. Arrivati al momento del bilancio, la chimera della rivoluzionaria armata e quella della operaia immigrata si somigliano molto più di quanto non apparisse. L’amarezza della disillusione è gemella.

In questo fantasmatico confronto tra tre generazioni di donne, quella che più si avvicina a aver compreso l’essenza della vita è la più anziana, la contadina che sapeva adeguarsi ai ritmi lenti della natura, senza tentare di violarli né illudersi di poterli dominare: la matriarca che si era chiusa per sempre nel mutismo quando l’angelo sterminatore del Novecento si era presentato alla sua porta per annunciare la guerra che inaugurava il secolo breve. Una di quelle che sapevano accettare tutto, «non per codardia ma per intelligenza della forze che regolavano il mondo».. Possedeva il segreto degli antichi costruttori delle case di Scilla, dove si conclude questo romanzo: costruite in mezzo al mare, con porte pensate non per chiudere fuori il mondo ma per fare entrare le onde e lasciar fluire all’ interno la marea.
Ci sono scrittori che si guardano intorno e creano universi. Ce ne sono altri che guardano al loro interno, lavorano sulla propria esperienza per sgrossarla e raffinarla sino a rintracciarne la valenza universale: la genealogia privata di un sentire comune. Di libro in libro, Barbara Balzerani racconta la realtà intima e universale di una sconfitta che va molto oltre i confini della nostra rivoluzione fallita o di un’opulenza bugiarda, rivelatasi poi intrisa di veleno. Quella sconfitta rappresenta il cuore dell’esperienza profonda della generazione e dei tempi da cui Barbara proviene. Riguarda tutti, anche chi può illudersi di esserne uscito vincente. Però nessuno, sinora, era riuscito a renderne compiutamente il senso, l’intima realtà e insieme, la necessità di redimerla attraverso l’unica possibile via di riscatto, che è la ricerca della verità.

Forse non si può pretendere che chi, nell’Italia di oggi, si guadagna da vivere scrivendo di chi scrive, e scopre un Proust o un Simenon dietro ogni chiacchiericcio, sappia mettere da parte la vicenda biografica di Barbara Balzerani per misurarsi senza schermi e pregiudizi con quello che scrive. Quando ne saranno capaci, e prima o poi succederà, scopriranno che è una delle poche scrittrici vere che ci siano oggi in questo Paese. Questo è il suo libro migliore. Per ora.