Uno scatto fotografico è sprecato se non ci si avvicina abbastanza al soggetto da riprendere. L’assunto, da Robert Capa in poi, è diventato un comandamento per ogni fotoreporter che voglia documentare la realtà. Ed è stato osservato fino a tutto il Novecento. Finché, l’approccio ravvicinato con il soggetto, nella fotografia di oggi, non parrebbe così essenziale; anzi, verrebbe rimpiazzato da una realtà scenica, da studio, pronta a edulcorare l’avvenimento crudo che spesso disturba o scandalizza le coscienze. Con buona pace, una volta per sempre, di quella fotografia di strada, stracciona e impudica, che ha registrato la cronaca del mondo.

Il fotoreporter Uliano Lucas e la studiosa di comunicazione visiva Tatiana Agliani prospettano che si vada in questa direzione con il loro libro La realtà e lo sguardo. Storia del fotogiornalismo in Italia (Einaudi), da poco sugli scaffali delle librerie. Un saggio di circa seicento pagine che, ricostruendo in oltre un secolo l’evolversi del fotogiornalismo, colma un vuoto nella pubblicistica del settore. Al contempo ingenera il sospetto che finisca per essere l’unico e il definitivo, destinato a recitare il de profundis al fotogiornalismo.

Re, guerre e paparazzi
Gli interrogativi che pone sono espliciti e avviano a far discutere: la fotografia può ancora stupire? le immagini che bombardano il vissuto quotidiano chiariscono o annebbiano la visione del mondo? il fotogiornalismo ha portato a termine il suo ruolo di sismografo della realtà? sta per morire d’invecchiamento? Il cambiamento rappresentato dalla tecnologia digitale, nel sistema dell’informazione visiva attuale avvolto dalla rete che mischia i grandi fatti del mondo con i fatterelli del dirimpettaio di casa, apre a prospettive e scenari in divenire di cui è prematuro prevederne i risvolti. Intanto, giunge gradita una storia del fotogiornalismo, mai affrontata, si diceva, nel mare magnum della stampa.

Vengono analizzate, a cadenza quasi decennale, le diverse stagioni attraversate dal paese: l’affresco dell’epoca umbertina e l’epopea del primo conflitto mondiale; l’adesione al regime; il dopoguerra e il miracolo economico; la protesta studentesca e la violenza degli anni di piombo; lo svilimento delle ideologie politiche e, a fine secolo, il neo-conformismo e l’accomodamento. Il fotogiornalismo italiano si ritrova a raccontare la realtà con forte ritardo rispetto ad altri paesi dell’Occidente: non solo perché irreggimentato da una dittatura ventennale, ma soprattutto perché bloccato, nello sviluppo, da una cultura «alta» prevenuta, quasi ostile, verso la fotografia che a torto è stata ritenuta un mezzo tecnico compatibile solo con l’intrattenimento e con l’evasione; per cui, nei giornali, le immagini erano dirottate sulle pagine meno impegnate. Ciò ha comportato l’emergere di una fotografia alternativa a quella dei giornali, ma avviata su percorsi d’indagine sociale non organici, con stili e poetiche estemporanei.

Fascismi e dissacrazioni
Il fotogiornalismo in Italia, di fatto, è tenuto a battesimo agli albori del Novecento da un cronista attratto dalle immagini: si chiama Adolfo Porry-Pastorel e collabora al Messaggero di Roma. La fotografia lo appassiona e non impiega molto a passare dalla descrizione all’illustrazione della notizia: nel 1908 fonda l’agenzia fotografica Vedo (Visioni editoriali diffuse ovunque). Testimone di quasi mezzo secolo di vita italiana, sa muoversi con acume tra immagini formali e impostate, richieste dalla propaganda del regime e immagini pungenti e ironiche, pubblicabili sulla stampa estera. Già negli anni ’20, in cui si fotografa con apparecchi che prevedono il medio e il grande formato, utilizza la maneggevole Leica con pellicola da 35 millimetri. Dall’agenzia Vedo transiteranno nomi noti del fotogiornalismo da reportage del dopoguerra, ma anche scattini del paparazzismo romano della prima ora, come Tazio Secchiaroli e Sergio Spinelli che nel 1955 apriranno l’agenzia della «dolce vita», la Roma’s press photo. Uomo del sistema sì, Porry-Pastorel; ma pur sempre direttore di un’agenzia privata. A differenza del Luce, istituzione del regime, le cui foto sono funzionali alla retorica del periodo. L’Istituto Luce (L’Unione cinematografica educativa) sorto nel 1924 per la realizzazione dei cinegiornali, tre anni più tardi si fornirà del mezzo fotografico per documentare l’intera parabola fascista.
Le ricerche sulla fotografia troveranno supporto, nella seconda metà degli anni ’30, in tre settimanali d’informazione e di cultura: Omnibus, con direttore Leo Longanesi che è fascista a tutto tondo ma anche dissacratore della cultura ingabbiata; Oggi (direttori Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio) che adotta un’impaginazione con singole grandi foto; Tempo, diretto da Alberto Mondadori, accostato ai settimanali stranieri che informano con le immagini e dei quali l’americano Life è caposcuola. Nell’immediato dopoguerra compare il Politecnico, settimanale di Elio Vittorini, considerato un laboratorio culturale anche per mezzo delle immagini. Una testata con cui si nobilita la fotografia, mediante un’accurata scelta estetica, è Il Mondo di Pannunzio, settimanale di élite.

Il ruolo delle agenzie
Per soddisfare la domanda crescente di immagini di attualità, viene a costituirsi una rete di agenzie fotografiche; alcune a conduzione quasi artigianale. Le agenzie si trovano nelle principali città: Publifoto, Farabola, Giancolombo a Milano; Foto Moisio a Torino; Agenzia Villani a Bologna; Studio Leoni a Genova, Fotocronache a Firenze; Attualfoto a Trieste; Interfoto a Venezia; Dufoto, Afi, Italy’s news photo a Roma; Foto Scafidi a Palermo. Tanti i giovani che vi cresceranno o che si formano nei circoli amatoriali. A Milano si crea un cenacolo di fotografi intorno al Bar Jamaica, nel quartiere Brera; nella capitale hanno opportunità di affermarsi gli aderenti del cosiddetto «Gruppo romano» e i fotografi della «Realfoto». Fra i reporter indipendenti, già cronista di penna negli anni giovanili, c’è Mario Dondero, scomparso di recente all’età di 87 anni. Pur dando meno rilievo agli esiti formali della fotografia, Dondero entra subito in sintonia col soggetto e, anche da un’ambientazione insignificante, riesce a trarre quel momento cruciale che rende unica l’immagine.

Le foto di testate come L’Espresso, Le Ore, Il Giorno rompono visivamente le pagine che, nel resto dei giornali, risultano ancora appiattite e prive di energia. Le vicende della contestazione e del terrorismo sono narrate da immagini sgranate, dai forti contrasti e tonalità della stampa in bianco e nero. Con l’arrivo degli anni ’80 si assiste alla normalizzazione che comporta il tramonto dei rotocalchi: la comunicazione della televisione ha messo in crisi il settimanale illustrato. Al posto della fotografia intesa come finestra sul mondo ora esiste la varietà dei canali della televisione pubblica e di quella commerciale. Il resto lo fa il computer che entra nelle redazioni, limitando il giornalismo d’inchiesta e le informazioni con le immagini. Che sono fornite dalle banche-dati. Si è chiusa davvero un’epoca, ma c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire.