È colpa della cantilena vecchia, banale e mistificatoria dell’India dei colori, delle spezie, dei sorrisi e dei santi spirituali hindu.

È per colpa di questo gioioso meccanismo di rimozione che, nel dibattito mondiale su Islam ed estremismo terrorista, continua a mancare la variabile analitica dei musulmani indiani. 180 milioni di persone – l’India è il secondo paese musulmano al mondo, dopo l’Indonesia – che vivono nel secolo della «minaccia islamica» e vengono sistematicamente ignorate dalla comunità internazionale, 180 milioni di «elefanti nella stanza» che non rappresentano un problema di ordine pubblico o di sicurezza internazionale, ma un problema cognitivo, un mistero.
Com’è possibile che oggi, con la minaccia Isis e la psicomania collettiva del terrorismo islamico ben oltre le soglie delle nostre città, nel secondo paese musulmano al mondo non stia succedendo nulla? Com’è possibile che alla chiamata alle armi globale di al-Baghdadi, che attrae «foreign fighter» dal nordafrica alle periferie ghettizate europee, la risposta dei musulmani indiani continui, sostanzialmente, a latitare?

L’amministrazione Obama, nel mese di maggio, ha lodato la «resilienza» dei musulmani indiani di fronte alla tentazione dell’estremismo islamico. Siamo sempre nei pressi del «miracolo», del pat pat sulla spalla a una comunità che ha rifiutato di schierarsi col «male», aderendo a quel «bene» agli occhi statunitensi così evidente e «naturale» da non poter essere evitato.

La misura della penetrazione di Isis entro i confini porosi della Repubblica indiana, in termini assoluti, è ridicola. Si hanno notizie di foreign fighter indiani «radicalizzati» su internet e partiti a imbracciare i fucili in Iraq e Siria: in tutto, secondo le stime di Soufan Group riprese a gennaio dall’Atlantic, sarebbero 23. I francesi, per fare un raffronto, sono più di 1700.

Sempre a gennaio la National Investigation Agency (Nia) – la polizia antiterrorismo indiana – ha arrestato Mudabbir Shaikh, 33 anni, residente nei pressi di Mumbai e autodefinitosi «capo» di Janood-ul-Khalifa-Hind, nuova sigla del terrore islamico indiano. Se le sofisticate tecniche di propaganda 2.0 di Isis, in tutti questi anni, pescando in un bacino di quasi 200 milioni di fedeli sono riuscite ad attrarre poche decine di combattenti e una manciata di aspiranti «terroristi annoiati», il sospetto che i musulmani indiani abbiano caratteristiche specifiche un po’ più complesse della «resilienza del bene» dovrebbe destare più di qualche curiosità alla ricerca di una possibile «ricetta indiana» contro il diffondersi dell’estremismo islamico.

La storia dell’Islam nella regione e quella – traumatica – della fondazione dello stato indipendente indiano hanno fatto dei musulmani indiani un case study unico nella sua complessità socio-culturale.

Uscendo dall’immaginario deviato dell’Islam monolitico fatto di barbuti ortodossi che, sciabola alla mano, squartavano e convertivano infedeli nel nome di Mohammad, nel tredicesimo secolo la fede musulmana in India nella variante mistica del sufismo, ancora oggi ampiamente più diffusa del wahabismo di importazione saudita. Una branca sincretica dell’Islam i cui lasciti culturali strariparono oltre le mura esclusive delle moschee, contaminando usi e costumi locali e sfociando nella poesia devozionale ghazal, nei canti estatici qawwali, nelle comunità religiosamente ibride delle dargah, i santuari sufi che ancora oggi attraggono milioni di fedeli, musulmani e non, nella venerazione di santi che predicavano un Islam di «amore e pace».

Ma nel 1947 la genesi traumatica di India e Pakistan – a rovinare i sogni nehruviani di un subcontinente unito, indipendente, pluralista e laico – impose alla comunità musulmana locale la mutilazione coatta di un tessuto sociale per lungo tempo coeso nella lotta per l’indipendenza dal colonizzatore britannico.

Davanti alla scelta di emigrare nella Terra dei Puri, con presupposti laici velocemente disattesi, o aderire al progetto di Nehru di un’India multiculturale dove i diritti delle minoranze sarebbero stati tutelati equamente in favore di un nazionalismo laico e socialista, la classe dirigente musulmana emersa dal movimento di liberazione subcontinentale si spostò in massa ad ovest del nuovo confine indo-pakistano, lasciando i musulmani indiani orfani di una formazione politica che potesse rappresentare gli interessi della prima minoranza religiosa dell’India (14 per cento della popolazione totale, oggi) nel nuovo assetto democratico del paese.

L’Indian National Congress (Inc) di Jawaharlal Nehru si propose come contenitore laico delle istanze musulmane locali, a patto che l’identità religiosa fosse messa in subordine rispetto al nuovo status di «cittadini indiani», che avrebbe dovuto accomunare l’intera popolazione. In un passaggio dello storico discorso pronunciato nel gennaio del 1948 da Nehru alla Aligarh University, culla del riformismo musulmano e del movimento di liberazione indiano, si legge: «Voi siete musulmani e io sono hindu. Possiamo aderire a credo religiosi diversi o anche a nessuno; ma questo non toglie nulla a quell’eredità culturale che è vostra come mia».

Le speranze di «unità nella diversità» di Nehru non furono in grado di ricucire la ferita collettiva della nascita del Pakistan, imponendo ai musulmani rimasti in India la problematica questione di un’identità nazionale tutta da provare.

Se ogni fedele hindu in India veniva – e viene – immediatamente identificato come parte integrante della nazione indiana, lo stesso non è ancora vero per i musulmani indiani, la cui lealtà alla Repubblica è messa in discussione ogni volta che le rivendicazioni dei «muslim», intesi come blocco sociale, vanno a identificarsi con l’appartenenza religiosa.

Dal consumo di manzo alla richiesta di vedere garantiti i propri diritti civili e costituzionali, fino alla denuncia di violenze e discriminazioni nei confronti della comunità musulmana in India, il messaggio subliminale e «gentista» è spesso sbrigativo e brutale: «Se non vi va bene, potete andarvene in Pakistan», come se generazioni di musulmani in India non fossero altro che ospiti gentilmente tollerati dalla maggioranza hindu.

Per questo la Guerra Santa del Califfato per una terra promessa islamica lontana dal subcontinente – geograficamente e culturalmente – ha un ascendente residuale nella comunità musulmana indiana, perfino nella polveriera kashmira indipendentista. Una casa, una tradizione condivisa a un’eredità culturale – ben diversa dalle prospettive wahabite di Isis – già esistono nel territorio dell’India indipendente.

E qui i cittadini indiani musulmani vogliono continuare a vivere e credere nella promessa nehruviana di un’India di tutti.