Affamato di silenzio e arroccato sulla difensiva, in tante delle sue lettere Alessandro Manzoni si schermisce, rifiuta, depista, mette in pratica eccessi di cortesia che sfociano in gelo e complicatissime cautele. È l’uomo abitato da quello che Mario Pomilio ha chiamato «il mistero stesso d’una sensibilità che non sa estrinsecarsi e rimane compressa in una specie di maldestro pudore». Un Manzoni avverso al calamaio, autore, in quasi ottant’anni, di poco meno di millenovecento lettere (un solo confronto, parlante: di Flaubert, morto a cinquantanove, se ne conoscono circa quattromila).

Fatica di scrivere – «poltroneria», autodenuncia lui – ma, soprattutto, rifiuto di concedere sulla carta troppo spazio ai rapporti formali, e fatica di trasferirvi il calore di quelli personali. Scrivendo a Giuseppe Giusti, si rivolge al foglio di carta: «carissimo foglio, stante che tu non sei il Giusti, devi sapere ch’io non trovo con te quel gusto insaziabile di trattenermi».

Socializzare e negarsi
Insieme alla ritrosia, le lettere di Manzoni documentano anche l’opposto: una rete di rapporti stretta e coesa, fatta degli amici di una vita, ma anche di conoscenze che si aggiungono negli anni, e evolvono, a volte, in vicinanza affettuosa. Dunque, i due volumi dei Carteggi letterari appena completati dal Centro Nazionale Studi Manzoniani (a cura di Laura Diafani e Irene Gambacorta, introduzione di Gino Tellini, 2 volumi, pp. LXXII-1856, € 160,00) che raccolgono e commentano, insieme alle lettere scritte da Manzoni, quelle a lui indirizzate, mostrano una doppia dinamica: il socializzare e il negarsi. La fama precoce, e l’universale approvazione avevano procurato a Manzoni il ruolo, sgraditissimo, di consulente letterario: abbondano le lettere di conoscenti e sconosciuti, poeti, scrittori e aspiranti tali che gli mandano le loro opere e gli chiedono un parere. Con costoro, il dialogo è un balletto: quelli si esibiscono in professioni di deferenza; lui risponde, sempre in ritardo, sempre scusandosi, e cesella, con garbo elaborato, le sue ragioni per non voler valutare né consigliare: «Quanto al parere che Ella, con troppo indulgente cortesia, ha voluto domandarmi, non so s’io abbia a porgerle scuse o congratulazioni del mio non poterla ubbidire: giacché è fortuna degli altri non men che mia, che l’avversione da questo ufizio del sentenziare su gli scritti altrui sia in me pari all’incapacità dell’esercitarlo, vale a dire esimia». Oppure risponde, solo a chi già gli è familiare, con lodi generali e critiche circoscritte, motivatissime, affilatissime.

La facies linguistica delle lettere di diniego tende, dunque, all’arzigogolo; campeggiano costruzioni rotonde, antinaturali. Non si tratta tanto di presa in giro (il sospetto è legittimo) quanto di auto-rassicurazione: formule e salamelecchi sono un appoggio e un nascondiglio. Anche se, in verità, quelle contorsioni, studiate per non dire, dicono almeno una cosa importante: che l’ossatura logica profonda del pensiero manzoniano è oppositiva e correttiva. Vorrei fare ma non posso fare; è così, ma dovrebbe essere diversamente; quel che scrivi mi piace, ma non mi piace poi tanto. Il ma avversativo è, nella scrittura epistolare come in quella narrativa e saggistica, legatura-manifesto del pensare, e dei rapporti.

Se le frasi, talvolta, si arroccano, le parole delle lettere non sono mai pompose, bensì sempre limpide e chiare, anche nel ribadire, sfaccettandole, le convinzioni di una vita («Ma dove l’Uso si fa intendere, il vocabolario non conta più nulla per me»); e sono spesso scherzose e («La poesia era una gran signorona che aveva di molti poderi …»). Gli interlocutori, invece, infiocchettano talvolta le loro pagine di quei paroloni antiquati che Manzoni sentiva sempre più lontani. E lui, statuario ma probabilmente annoiato, risponde moltiplicando la cortesia, e la distanza.

Conosce il valore delle parole e le usa con mira precisa. Ma, soprattutto: le usa, di preferenza, per ragioni professionali. Perché gran parte delle sue lettere parlano di scrittura e di vocabolari; di progetti e di traduzioni; di libri inviati e ricevuti, di consulenze linguistiche date e richieste. Dunque i due volumi dei Carteggi letterari isolano il nucleo centralissimo, e la ragion d’essere più profonda dell’intero epistolario. Leggiamo le lettere di Manzoni non solo perché sono belle (lo sono!), e perché danno informazioni sul suo lavoro letterario (le danno), ma perché di quel lavoro fanno parte.

Scrivere lettere è componente e strumento di un percorso professionale in divenire, articolato e condiviso. Le lettere spedite e quelle ricevute formano un lunghissimo romanzo epistolare, che non parla, come quelli settecenteschi, di seduzioni e innamoramenti, ma di passioni libresche. Sceneggiano, a puntate, la storia avventurosa di una rivoluzione (culturale) di cui Manzoni è stato attore principale, e dove deuteragonisti, oppositori e comprimari hanno avuto un ruolo che, in questa edizione, risalta con la nitidezza delle loro voci.
Alcuni contemporanei di Manzoni avevano idee ben diverse dalle sue in tema di lingua e letteratura. Indiscussa resta però la statura del protagonista. Vincenzo Monti, gran sacerdote del culto neoclassico, letti i Promessi sposi del 1827, dichiara, semplicemente «Vorrei esserne io l’autore»; anche l’abate Cesari, campione del più schizzinoso purismo, ama il romanzo, e lo dice con qualche ricciolo anticheggiante in più: «Son rimasto innamorato, ebro, cotto fradicio d’amore dell’opera e dell’autore». Linguaggi e stili si intrecciano, e capita che facciano a botte.

Nei sette decenni che le lettere attraversano, molto succede: esce di scena la mitologia, entra la storia; retrocede la lingua letteraria della tradizione secolare, e avanza l’uso di Firenze; impallidisce l’idea della letteratura come ornamento; e si va definendo il concetto manzoniano di letteratura al servizio del pensare bene, e di lingua come strumento di comunicazione sociale e civile.

In primo piano il lavoro
Lo scrittore è instancabile nel ribadire, riprendere, interrogare e precisare. E ostinatissimo nel parlare non di sé ma, appunto, di lavoro: è delle vicende dell’italiano che importa trattare; delle scelte degli scrittori; della loro capacità di raggiungere i lettori. Non parlare di sé vuol dire anche, per Manzoni, uscire dai confini della grondante effusione lirica che, per tradizione secolare, ha accompagnato gli uomini di lettere. Rifiutare o limitare l’autobiografismo significa assegnare il primo piano a quel che davvero conta: la questione di scrivere, in una lingua che appartenga a tutti gli italiani, una letteratura che li riguardi tutti.
In questa ottica – lo mostra l’introduzione di Gino Tellini, un testo molto bello, che fa capire alcune cose importanti di Manzoni – la ritrosia non è sottrazione, ma un modo di re-indirizzare gli interlocutori, invitandoli a concentrarsi non su chi scrive le lettere, ma su quello di cui le lettere parlano.