Dopo dodici anni, la multinazionale petrolifera anglo-olandese Shell non sarà più tra gli sponsor della National Gallery di Londra. Un risultato ottenuto anche grazie agli artisti e agli attivisti ambientalisti che da anni si stanno mobilitando contro il sostegno finanziario delle grandi corporation del petrolio e del gas nel settore dell’arte e della cultura in generale.

«Artwashing» la chiamano: le compagnie fossili sponsorizzano le grandi istituzioni museali di Europa e Stati Uniti per cercare di ripulire la propria reputazione pubblica. «Per una piccola fetta del loro enorme budget in public relations, le multinazionali del gas e del petrolio sono capaci di comprarsi una immagine falsa di generosità culturale e sociale» scrive il collettivo olandese Fossil Free Culture NL.

Secondo gli attivisti, quella di Shell e di altre multinazionali energetiche è una strategia che serve per mantenere la «rispettabilità sociale di cui hanno disperatamente bisogno per continuare i loro soliti affari distruttivi». Per invertire questa tendenza, il collettivo Fossil Free Culture NL nei Paesi Bassi contro Shell, quello «BP or not BP?» nel Regno Unito contro British Petroleum, o ancora quello «Liberons le Louvre» in Francia contro Total, hanno deciso di rispondere con le stesse armi: all’interno o vicino ai musei supportati dalle multinazionali, più volte sono andate in scena performance artistiche e sit-in per sensibilizzare i visitatori sui drammatici rischi dell’inquinamento ambientale e del cambiamento climatico e chiedere un cambio di rotta.

Tra arte, attivismo, ambientalismo e performance, l’ultimo segnale di vitalità di questa campagna internazionale è arrivato dal Regno Unito. Lo scorso ottobre, infatti, Shell ha comunicato che non rinnoverà la partnership con la National Gallery di Londra mentre a Manchester l’inaugurazione della mostra Elettricità: la scintilla della vita, finanziata da Shell, è stata accompagnata da molte polemiche.

La petizione contro la partecipazione della multinazionale ha raccolto più di 50 mila firme, spingendo altri sponsor più o meno prestigiosi a ritirare il proprio supporto. «Ci siamo ispirati agli spettacoli di Liberate Tate che nel 2016 hanno spinto le gallerie Tate a interrompere i legami finanziari con British Petroleum», ha spiegato Jess Worth, attivista del gruppo «BP or not BP?» che vuole mettere insieme arte e denuncia ambientale. E ancora: «A fronte di un sostegno finanziario tutto sommato limitato, con le sponsorizzazioni le compagnie petrolifere cercano di ottenere un pubblico riconoscimento, associando il proprio nome a istituzioni rispettate e ben considerate». Denunciarle e mettere le istituzioni culturali di fronte alle proprie responsabilità è l’obbiettivo che molte attiviste come Jess Worth si sono date per contrastare il cambiamento climatico.

Due dei maggiori successi di questa campagna internazionale sono arrivati dai Paesi Bassi dove sia il Van Gogh Museum di Amsterdam che il Mauritshuis di Den Haag hanno annunciato la scorsa estate la fine dell’imbarazzante partnership con la multinazionale del petrolio e del gas Shell. «Sono bastate sei performance disobbedienti per spingere il Van Gogh Museum di Amsterdam ad abbandonare la sponsorizzazione di Shell», hanno commentato gli artisti del collettivo Fossil Free Culture NL, soddisfatti per le scelte simili adottate anche a Den Haag.

Le azioni del gruppo hanno preso il via nel 2016 quando, in occasione della mostra al Van Gogh Museum su Van Gogh e la sua malattia, un gruppo di artisti-attivisti ha indossato i panni di quattro uomini malati a causa di intossicamento da petrolio. Qualche mese dopo, è stato il turno dello spettacolo Abbandona la conchiglia (shell in inglese) che si è concluso addirittura con l’arresto degli otto attori-attivisti, rilasciati dopo la decisione della dirigenza del museo di non sporgere denuncia.

Con l’utima azione, invece, sulle pareti del museo si è materializzato il messaggio piuttosto esplicito «Concludiamo l’era dei combustibili fossili ora». Si è trattato dell’ennesimo spettacolo provocatorio che ha spinto la dirigenza del Van Gogh Museum a interrompere definitivamente i legami con la multinazionale Shell. Una decisione a cui è seguita quella analoga del Mauritshuis di Den Haag e che è stata rivendicata come una vittoria dagli artisti grazie all’unione di «estetica e poesia con l’audacia e l’impegno dell’attivismo».

Se altri musei si allineeranno alle decisioni della National Gallery di Londra e del Van Gogh Museum di Amsterdam, neppure gli investimenti nelle istituzioni culturali serviranno alle aziende petrolifere e del gas per sminuire le loro responsabilità contro il cambiamento climatico e per rifarsi una reputazione con «pochi spiccioli». L’obiettivo degli attivisti-artisti è far fare loro la stessa fine delle industrie del tabacco: ormai divenute, in molti paesi, partner e sponsor sconvenienti per qualunque tipo di manifestazione, sportiva e non. Per un business che poco si adatta, come nel caso delle aziende energetiche, con l’orizzonte valoriale di cui si alimentano e che promuovono le istituzioni museali di tutto il mondo.