«Sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. Mi guardo intorno e se succede qualcosa sono pronto a recepire lo stimolo – afferma Seba Kurtis (Buenos Aires 1974, vive e lavora a Manchester), al termine della nostra intervista nella galleria di Corso Vendemini -. La creatività arriva quando si è già impegnati i qualcosa» Così è stato, infatti, anche la scorsa estate quando, nel bel mezzo del progetto sul territorio Adriatic Coast to Coast, ha realizzato i lavori per la mostra Four Nights and a Thousand Lives (esposta in occasione della 23/ma edizione del Si Fest a Savignano, a cura di Stefania Rössl e Massimo Sordi). Nel tempo brevissimo di quattro notti, Kurtis ha concentrato anni e anni di storie di migranti. Come ha spiegato il critico inglese Andrew Moseley, «il suo lavoro non aveva come obiettivo una documentazione tradizionale sul fenomeno dell’immigrazione. I ritratti miravano a un dialogo con la memoria e con le biografie individuali, restituendo un ritratto collettivo ma, al contempo, anche un suo autoritratto».
Nel centro profughi, Kurtis ha raccolto molte storie che parlano del cambiamento di vita, dei pericoli, dell’attesa, della frustrazione di trovare qualcosa che non è esattamente la terra promessa.

La scatola di scarpe con le foto di famiglia ha segnato una svolta nel suo percorso personale e artistico. Qual è stato il meccanismo che ha trasformato delle vecchie immagini, che non erano neanche in perfetto stato di conservazione, nel lavoro «Shoe Box»?

Per questo lavoro ho usato foto di quando ero piccolo, ricordi di famiglia. Attraverso tali immagini ho voluto intraprendere un percorso di ricerca ed esplorazione: volevo sondare l’influenza che ha avuto su di me il realismo magico, che è un aspetto fondante della cultura argentina da cui provengo. Le fotografie che ho recuperato, seppure danneggiate dall’acqua e imperfette, possedevano un’atmosfera mistica e misteriosa, anche un po’ pazza, avevano una luce tutta particolare. Erano la prova della mia infanzia e della mia storia. Qualcosa di personale che, però, volevo rendere universale. Soprattutto, senza che me ne rendessi conto, quelle immagini hanno avuto un ascendente sul mio lavoro fotografico successivo, quando in Drowned ho letteralmente annegato i negativi. Volevo lavorare sull’idea di ciò che è danneggiato. La scatola di scarpe ha, sicuramente, influenzato la mia fotografia pure rispetto a un altro livello: mi ha guidato nella riflessione sulla relazione tra la fotografia documentaria e la finzione.

A proposito di imperfezione, si notano in alcune sue opere degli «inciampi imprevisti», per esempio una luce che attraversa l’inquadratura perché è stata causata dai raggi X all’aeroporto. Quanto entra questa componente «casuale» nel suo lavoro?

Il cento per cento! La mia vita stessa è un grande imprevisto. I fotografi, generalmente, sono un po’ psicopatici: devono tenere tutto sotto controllo e realizzare le immagini così come le vogliono, dimostrando una cura maniacale per il loro lavoro. Io, invece, quando succede qualcosa di sbagliato mi chiedo come mai sia accaduto e in che modo possa entrare in relazione con il mio lavoro. In un certo senso, nutro un profondo rispetto per questi incidenti. Sono fantastici e, anche se non fanno parte del progetto che avevo in mente, mi piace comunque riuscire a inserirli.

L’emigrazione – il distacco dagli affetti, i rischi del viaggio in clandestinità, le difficoltà del processo di integrazione, la precarietà di un presente che offusca il futuro – è una tematica centrale nella sua produzione. Nel confrontare la sua esperienza di immigrato illegale alle Canarie con quella di tanti altri lavoratori che arrivavano dall’Africa e dal Sudamerica, quali sono state le differenze e quali i lati comuni?

Ho capito che esistono vari livelli nell’essere clandestino. Allora pensavo che la mia vita da immigrato fosse una schifezza totale, poi ho scoperto che quella dei miei colleghi africani era ancora più difficile. Nel lavoro le dinamiche per coloro che giungevano dall’Africa, erano completamente diverse. La loro disperazione non era uguale alla mia. Io, a un certo punto, potevo anche pensare di rientrare nel mio paese. Avrei trovato una situazione non facile, ma per loro sarebbe stato impossibile. Per questa ragione, dovevano stringere molti più compromessi. Io mi immaginavo come un cittadino di seconda classe, ma non ho mai avuto la sensazione di sentirmi perso. Un gran numero dei miei amici, invece, era proprio in preda alla disperazione.

In altre interviste, lei ha parlato di rabbia e frustrazione che, attraverso l’arte, hanno trovato una canalizzazione e poi una codificazione. Oltre a essere portavoce di riflessioni di natura socio-politica, l’esperienza estetica ha avuto anche una valenza terapeutica?

Sì. Anche se, in realtà, l’ha avuta solo in parte. Mi ha aiutato a capire cosa stesse accadendo alla mia vita di clandestino. Ma questo succedeva all’inizio, quando ero arrabbiato e mi sentivo sempre frustrato. Esprimevo questi sentimenti in modo radicale, attraverso la fotografia che usavo per sperimentare. Ma ora che ho un’esistenza diversa, ho la mia famiglia e il mio lavoro, mi posso considerare molto più rilassato. Faccio sostanzialmente quello che mi piace, non devo dipendere da una galleria, per cui posso esprimermi liberamente. Lavoro con entusiasmo, mi sento come un bambino, mi lascio trasportare in un’altra dimensione.
Dopo gli studi in Fine Art al London College of Communication, cosa l’ha condotta a privilegiare la fotografia e il video tra i vari linguaggi artistici, pur definendosi un «anti-reporter»?
Niente! Sì, il master che ho fatto a Londra è stato proficuo, ma penso che sia stato un errore. Quando l’ho finito, ho dovuto ricominciare tutto per capire cosa volesse dire la fotografia. Tutte quelle stupidaggini sulla fotografia intellettuale mi avevano allontanato da quello che mi piace veramente: la sperimentazione. Mi aveva fatto diventare più uno scrittore che un fotografo. Stava diventando difficile tornare indietro. La definizione di anti-reporter, come ha detto, penso che sia abbastanza ovvia quando, come in Drowned, l’immagine è l’opposto della verità perché è una rappresentazione metaforica.
La verità in fotografia, del resto, non esiste. Sono io che esisto. La fotografia può essere più realistica, in base al proprio sentimento, ma non è che un’immagine, un momento della propria prospettiva. Credo che la cosa più interessante, per me – quando vado in una galleria d’arte – sia che l’arte mi stimoli a pensare. Non mi deve dire tutto, ma lasciare uno spazio per le mie riflessioni. È questo che voglio raggiungere anche nel mio lavoro.

Immagine fissa e in movimento hanno la stessa valenza? In che modo dialogano con la parola, sconfinando in un territorio tra realtà e finzione?

Non vedo alcuna differenza tra immagine fissa e in movimento. Per me si tratta sempre di comunicazione, non di immagine. E si può comunicare a diversi livelli. Mi affascina il mistero. Non è necessario dire tutto. Si deve comunicare con il sentimento. Personalmente, quando ci riesco, ho raggiunto il mio scopo. A quel punto non importa che tipo di artista sei, se si tratta di verità o finzione o che tipo di elementi si stanno mettendo in campo. Ne sfodero vari: quelli che mi permettono di comunicare.

Da «Immigration Files» a «Kif», fino al più recente «The Promised Land», quali sono le maggiori difficoltà nel rendere visibile ciò che non lo è?

Non ho una formula per rendere visibile l’invisibile. La difficoltà, piuttosto, è quella di produrre una nuova idea. Provare a lavorare sul concetto è più importante dell’immagine che si produce. Per esempio, in The Promised Land l’immagine è invisibile, catturata con una lunga esposizione che annulla la visione. Non c’è nulla. Ma poi, con Photoshop, l’immagine esce fuori. Questa è la bellezza del progetto.