Eretico, concettuale, scomparso prematuramente a 54 anni nel 1981, l’artista Vincenzo Agnetti – nel corso della sua breve ma intensa carriera – ha indagato tutte le possibili intersezioni tra immagine e testo, declinando la parola in forme iconiche e l’immagine in poesia.
Lontano dallo spirito impersonale, semiotico e dalle teorizzazioni dei concettuali di area anglosassone – come Sol

LeWitt, Joseph Kosuth o Art & Language – Agnetti ha ideato paradossi e tautologie, creando cortocircuiti interpretativi intrisi di riflessioni di carattere storico, culturale e filosofico. Tutto, per lui, era un atto linguistico: è la parola a suggerire indagini e a costruire narrazioni.

DOPO IL DIPLOMA all’Accademia di Brera, Agnetti studiò alla Scuola del Piccolo Teatro con Strehler, pubblicando saggi su Piero Manzoni e collaborando con la rivista Azimuth. Nel 1962 si trasferì a Buenos Aires e per alcuni anni lavorò nel campo dell’automazione elettronica. Fu quello un momento di grande riflessione critica e di scrittura, come testimoniano i quaderni argentini presentati nelle prime sale della personale Agnetti. A cent’anni da adesso, ospitata a Palazzo Reale a Milano (fino al 24 settembre, ingresso gratuito).

In mostra sono raccolte oltre cento opere, realizzate tra il 1967 e il 1981, l’anno della morte, tra sculture, fotografie, installazioni, bacheliti e feltri su cui incideva gli Assiomi, e le Photo-graffie, carte fotografiche esposte alla luce e graffiate. In ogni sala è presente un testo scritto da Agnetti stesso che spiega il contenuto dell’opera per mostrare sia il pensiero che l’ha determinata — ogni lavoro nasceva da una riflessione teorica che sintetizzava in un secondo momento — sia per renderla più accessibile al pubblico.

Dal percorso della rassegna si evince che il rientro a Milano nel ’67 fu caratterizzato da un’intensità febbrile, grazie anche alle collaborazioni con Enrico Castellani, Fausto Melotti, Claudio Parmiggiani, Gianni Colombo e Paolo Scheggi. Agnetti si confrontò con diverse modalità espressive, con la fotografia — in Autotelefonata l’artista parla a se stesso e si ascolta con due cornette telefoniche — con la performance, con il Progetto per un Amleto Politico, installazione formata da sessanta bandiere poste accanto al palco da cui l’artista arringava la folla con un appassionato monologo amletico composto unicamente da numeri, che considerava codici linguistici universali. «Quando le parole si elevano a valori di numeri, i numeri valgono le parole», è lo statement inciso in uno dei suoi Assiomi.

Il suo Amleto era un’azione di teatro statico così come l’installazione La macchina drogata, composta da tre grandi pannelli serigrafati con riflessioni di carattere politico e linguistico e dalla calcolatrice Divisumma 14 della Olivetti, a cui Agnetti aveva sostituito i tasti numerici con le lettere dell’alfabeto. Ogni digitazione produceva parole senza senso, l’alterazione inibiva la macchina dalle sue funzioni matematiche per trasformarla in produttrice di nuove opere, che potevano essere «composte» anche dai visitatori.

«IL SUO SGUARDO era sempre rivolto al futuro, la sua intenzione era quella di guardare oltre, ’a cent’anni da adesso’, come spesso diceva», ha affermato la figlia Germana, fondatrice dell’archivio Agnetti, che insieme a Marco Meneguzzo ha curato la mostra milanese. «Il tempo era uno dei temi a lui più cari, perché grazie alle sue capacità trasformative è in grado di determinare e plasmare il rapporto con la cultura, l’arte, la storia». Un esempio è Libro dimenticato a memoria, un grande volume di 70 x 50 cm, di cui Agnetti ha lasciato solo il contorno delle pagine. Quel vuoto era per lui una metafora del rapporto tra memoria e oblio. «La cultura è l’apprendimento del dimenticare», sosteneva l’artista, perché solo la dimenticanza permette di accogliere con più libertà gli avvenimenti che verranno. «I suoi paradossi maieutici – ha spiegato il curatore Meneguzzo — non sono mai riferiti a un tempo specifico, sono universali. L’unicità del lavoro di Agnetti, che non ha mai temuto di essere interdisciplinare, è stato quello di aver creato un diverso sistema linguistico senza rinunciare alla poesia».