Fu il padre, «reporter» amatoriale, a prestare al suo bambino la prima macchina fotografica. Un gesto che rimarrà inciso nel dna di Jacques Henri Lartigue (1894 – 1986), dato che – come sostenne più volte – era afflitto dalla malattia della dimenticanza e quel catturare immagini sarà il suo modo di assaporare l’esistenza senza evaporazioni improvvise né cedimenti a contorni troppo approssimativi dei ricordi. Lo farà da ragazzino (con foto stupefacenti nate tra i suoi 11 e 17 anni), prima ritraendo i momenti di gioco con il fratello, poi immortalando zii, cugini, parenti e, da adulto, aprendosi all’energia sprigionatasi a dagli anni che seguirono la Grande Guerra e da quell’ottimismo dell’emozione che ancora non prevedeva il precipizio del secondo conflitto mondiale.

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L’OBIETTIVO, però, all’inizio fu accantonato: Lartigue voleva essere pittore, esponendo ai Salons parigini e cavalcando quegli anni ruggenti con i colori pastosi. Ma l’amore per le donne, per i soggetti della natura mutevole come le fronde degli alberi, per le macchine in corsa che aprivano una nuova stagione, l’idea di gioia coniugata con il dinamismo di una società europea in sboccio, lo riportarono verso la fotografia. E lo convertirono al bianco e nero.
Verrà scoperto tardi, ultrasessantenne, etichettato come un folletto della Belle Époque uscito fuori quasi per caso e poi riconsegnato alla storia fra i grandi maestri consapevoli: il Moma gli dedicò nel 1963 una personale grazie all’interessamento di John Szarkowski, che però lo cristallizzò in una naïveté grafica e artistica. Avedon invece preferì frugare fra le immagini e chiese di farlo proprio a Jacques Henri che compose così sterminati album autobiografici e non solo. Lartigue, infatti, è sempre sorprendente, mai statico, votato per carattere al «volo» e allo spiazzamento dell’osservatore. Disattende la forza di gravità e, spesso, gioca con l’aria (Zissou nel vento dell’elica di Amerigo, 1911) e con l’acqua (Lévy, recordman del mondo, 1938), elementi mobili per eccellenza.
Imprendibile e inclassificabile, una volta affermato come fotografo – alla diffusione delle sue immagini contribuì la stampa cattolica e l’agenzia Rapho -, non smise mai di rammaricarsi dell’oblio in cui era caduta la sua attività di pittore. Anche qui, dimostrando di non saper stare fermo. Solo la notte si placava. «Proust? – dice Jacques Henri Lartigue nel documentario di Elisabetta Catalano, che si può vedere nella mostra ai Tre Oci di Venezia in occasione della retrospettiva L’invenzione della felicità – no, non l’ho mai conosciuto. Lui si alzava quando io mi coricavo, impossibile per noi un incontro!».

CURATA da Marion Perceval e Charles-Antoine Revol (direttrice e project manager della Donation Jacques Henri Lartigue), e da Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci, organizzata da Civita Tre Venezie, promossa da Fondazione di Venezia in collaborazione con la Donation Jacques Henri Lartigue di Parigi, la rassegna propone fino al 10 gennaio 2021 centoventi immagini, molte delle quali inedite (catalogo Marsilio). Provengono dagli album che il fotografo aveva cominciato a donare alla Francia fin dal 1979 per scongiurare la loro disseminazione e perdita.
«La felicità – sosteneva Lartigue – è l’unica cosa che conta. Tutti dovrebbero costruirla con coraggio e senza pigrizia. Mi rincresce molto non poter elargire felicità come si danno cento franchi». La mostra alla Giudecca, che la pandemia aveva negato allo sguardo e che ha aperto i battenti in piena estate, è in fondo il miglior respiro allargato che ci possiamo concedere, dopo l’apnea che ci ha costretti tutti a spezzare l’orizzonte e ad abbassarlo negli angusti confini di una stanza.