Il Museo che incontra la morte appare una mostruosità inconcepibile, eppure questo è avvenuto al Bardo di Tunisi.
Nel museo tutto è morto, ma in una forma pacificata; lì possiamo vagare in meditazione laica, come avviene nei cimiteri-giardino, tra i relitti più diversi del passato e del presente. Vige una sorta di sospensione dalla vita quotidiana e, in cambio di una ritualità specifica, siamo protetti da un’istituzione e da una regola riconosciuta. L’irruzione della vera morte è la rottura inaudita di questa regola non detta; per questo il Bardo è genuino terrorismo: si colpisce un luogo del vivere collettivo per amplificare l’eco dell’atto. Il museo è l’occasione, non l’obiettivo.

Tunisi ha oscurato un evento che, in altra forma, ha provocato indignazione ma – soprattutto – un sentimento di panico: le distruzioni nel museo di Mosul e poi, in un incalzare di notizie da verificare, a Nimrud e in altri siti. Qui l’obiettivo non è il clamore dell’azione violenta contro umani inermi, ma esattamente il luogo e la sua funzione.

Le credenze rassicuranti
Queste distruzioni, che appaiono feroci e insensate, ci costringono a ragionare intorno a categorie recenti che abbiamo sempre accettato, e proposto, come ovvie e auto-evidenti. Il museo è scolpito nel nostro immaginario come qualcosa che appartiene all’ordine naturale della vita; è un pezzo insostituibile del mondo, come la strada e la casa, l’ospedale, il cimitero, la scuola. Nella vita di ognuno ha rappresentato, di volta in volta, il luogo della noia, la raccolta di cose preziose prima inaccessibili, lo stupore per le abilità, il luogo di studio e di ricerca, la tappa fissa di ogni viaggio, il luogo rassicurante per un primo appuntamento.

Questa violenza atroce ci costringe a prendere atto che il museo non è uno dei tanti dettagli dell’ordine naturale, come il mare e l’albero, ma un luogo altamente artificiale, attraversato da un flusso incessante di progetti e aspirazioni spesso contrastanti tra loro. Karsten Schubert in Museo. Storia di un’idea premetteva «che il concetto di museo è un mito ’razionale’ dei più persistenti e poderosi: è un insieme di credenze, ampiamente condivise e tradotte in forma concreta, che difficilmente reggono all’analisi critica».

Il museo dove oggi si riversano le folle che attraversano il mondo è il frutto più originale di una ideologia determinata e circoscritta. Le grandi collezioni pubbliche di Londra, Parigi e Berlino non sono comprensibili se non si intrecciano con la complessa contesa tra gli imperialismi del XIX secolo. E altrettanto sfaccettata è la storia delle architetture dei musei, che ad ogni rimaneggiamento rappresentano fisicamente la ricerca del proprio significato.

E i musei del XIX secolo non sono solo gli oggetti, dal quadro al tessuto, dalla scultura alla porcellana; tutte cose che contengono l’idea della trasportabilità. Dentro i musei ci sono anche pezzi di città; oggetti inamovibili che invece si sono mossi e ora sono accampati, donandoci una vertiginosa esperienza metafisica, «dentro» altri contenitori che, per di più, vi alludono nelle forme. Colonnati del XIX secolo ci introducono a colonnati del II secolo, a.C. o d.C. L’attitudine a storicizzare, capire e studiare le testimonianze del passato, come l’abitudine alle forme, porta a sottovalutare l’incoerente sistematica dei fini. Appare ovvia la forma del museo, appare ovvio trovare determinati oggetti nel museo, appare ovvia questa modalità dell’esperienza; ma non lo è, i drammatici fatti di questi giorni sono lì a ricordarcelo.

I musei sono prima di tutto macchine, altamente instabili, di produzione ideologica che, naturalmente, hanno prodotto cose molto più interessanti e importanti. Ma è l’ideologia che, saldandosi a un apparato di studi in lenta formazione, ne ha permesso la creazione e la disseminazione in ogni angolo del pianeta.
Gli atti dei miliziani fanno emergere il non detto del museo, della conservazione, del culto del passato e allo stesso tempo ci ricordano, brutalmente, che le testimonianze delle civiltà del passato non sono state consumate dalle brezze marine, ma distrutte con metodo da chi, come loro, venuto dopo le ha considerate poco più che materia grezza. Ma il riconoscimento del valore significativo di tutte le forme della figurazione, comprese quella che distruggono le precedenti, ha permesso agli inizi del novecento il fiorire degli studi su civiltà fino ad allora considerate o primitive, o decadenti o, nella migliore delle ipotesi, semplici tappe verso un punto elevato.
La Roma dei ruderi classici ancora nel XVIII secolo era un luogo dove «cavare marmo». Scrive J.G.Legrand nel 1779: «quando i marmisti venivano alla ricerca di qualche pezzo da cui ricavare un basamento, un busto, un vaso di marmo – e per tal fine alteravano il pittoresco disordine di frammenti – i due antiquari (Piranesi e Ch.Clerisseau)… definivano quelle ricerche come intrusioni di barbari nei loro stati». C’è un conflitto nel modo di interpretare la medesima realtà: lo scopo utilitario degli scalpellini, che prendono il materiale dov’è, e un pensiero che salda storia e paesaggio, «il pittoresco disordine di frammenti». Il Louvre aprirà le porte nel 1793, ma già intuiamo il conflitto che si va aprendo tra il giudizio estetico sul mondo e chi materialmente vive in quel mondo.

I musei nascono disordinatamente intorno all’idea, sempre in divenire perché vaga e sfuggente, di «identità nazionale» e di volta in volta ne assumono gli aspetti della conquista, della grandezza, della superiorità culturale, fino a supportare visivamente la coinvolgente «invenzione della tradizione» che ha intessuto la vita di centinaia di milioni di persone . Se le grandi esposizioni universali sono i luoghi dove passeggia la borghesia celebrando i fasti della produzione, nei musei va in scena l’aspirazione figurativa, la forma esteriore e interiore dei suoi membri. I musei contengono quel composto, insieme normativo ed educativo, che dovrebbe dare forma visiva al sentimento della cittadinanza. Ovviamente, servono a conservare, studiare e capire, è questo lo scopo ultimo, senza però dimenticare che sono il potente motore dei luoghi comuni dell’identità. Rappresentazione e creazione, allo stesso tempo, della vaga identità delle moderne nazioni.
È emblematica la vicenda dei musei «etnologici» che, più intimamente intrecciati con le forme coloniali, hanno mutato di frequente il modo di proporsi, adattandosi alla mutata sensibilità e cultura. Oggi non è raro notare come questo tipo di museo cerchi un futuro nell’estetizzazione del reperto.

L’idea che il museo sia il luogo del «bello», per usare una parola che dice molto ma significa poco, è una delle chiavi di volta che ne ha sostenuto il passaggio da una forma schiettamente ideologica, oggi poco accettabile, a quella narcisistica. Per il museo di etnologia il passaggio è particolarmente evidente perché, per sua natura, contiene oggetti «significativi» prima che «belli».

L’oggetto per il tutto
Si vanno aprendo dei conflitti intorno ai musei di etnologia tra soggetti (come il caso dei nativi americani) che rivendicano gli oggetti esposti come cose vive, e le istituzioni che cercano nuovi statuti per sottrarsi alla catastrofica (per il museo) restituzione. La considerazione estetica è uno di questi espedienti, perché permette di avvolgere l’oggetto di un valore impalpabile, ma immensamente più rilevante del suo valore d’uso. Tra l’oggetto necessario al morto per vivere dignitosamente nell’aldilà e il capolavoro artistico non c’è confronto: l’oggetto resta nel museo. Anche perché bellezza, rarità, fattura incorporano un valore venale.

Altre restituzioni vengono chieste in nome dei luoghi origine, a partire da quella esemplare dei marmi del Partenone.

Il museo del XIX secolo è largamente costruito intorno a delle spoliazioni, se legali o illegali è quasi un dettaglio, che nel tempo hanno costruito la fisionomia delle aspirazioni di una comunità. Altre comunità, nel tempo e -paradossalmente- accedendo alla medesima cultura, si sono sentite spogliate della loro fisionomia, oltre che di oggetti materiali. Ma se l’una non è la cultura che ha prodotto le opere che espone, l’altra non è la cultura che le ha realizzate e conservate. La contesa, che sembra riguardare il passato, in realtà è pura attualità.

La contesa infinita
I bassorilievi di Fidia, rubati da Lord Elgin, esportati e venduti al British Museum sono l’oggetto di una contesa infinita. È impossibile non chiederne la restituzione, perché si tratta di un furto; è impossibile restituirli perché sono la pietra angolare dell’idea stessa del British Museum. Ma per una visione più radicale, come quella degli estremisti distruttori di Mosul, le differenze sono molto meno significative. I marmi di Fidia si sposterebbero da un contenitore, costruito intorno ad essi, ad un altro contenitore costruito per accoglierli. Non ci sarebbero mutamenti significativi di statuto, ma solo di posizione geografica; alla fine la scelta è tra una rivendicazione nazionalistica e un’altra. Quella greca appare decisamente meno indigesta, ma più per la disparità di forze in campo che per la prossimità al luogo della spoliazione.

In questa considerazione dei reperti archeologici c’è un prepotente aspetto feticistico, che non sfugge all’occhio vigile del devoto con kalashnikov. Dentro il museo, e intorno al museo, gli occidentali hanno imbandito una vera e propria idolatria.
La vicenda di Mosul ci ricorda la parzialità dei nostri luoghi comuni, e la relazione tra «Museo e Cultura» è uno dei più solidi. Spesso definiamo cultura quella che è una ritualità, finalizzata in gran parte alla costruzione di un consenso intorno a idee forti di comunità. Che poi, per inciso, è una definizione accettabile di cultura e che in genere applichiamo ai materiali che esponiamo nei musei. Oggi si parla ossessivamente di quanto potrebbe «rendere» la cultura, e così un altro bubbone ideologico (il profitto) si incista nel museo rendendone più difficile l’accidentato percorso. Di fronte al problema, ancora aperto, del perché si va in un museo – e faticosamente orientati verso la comprensione del significato e la maggiore libertà dell’individuo – si piazza l’indimostrato assioma che il museo debba rendere quattrini.

L’idea del museo che rastrella oggetti per attirare folle e incassare denaro è sconcertante, eppure se ne parla come di un’ovvietà. Si ripresenta, come modello per ogni futura esposizione, un inconcepibile ritorno allo spirito commerciale della Great Exibition.

Certo non sfugge a nessuno che le folle che si agitano in alcuni grandi musei e siti archeologici pongano un quesito elementare: quale rito si sta svolgendo di fronte alla Gioconda blindata?
Il conflitto con lo stato islamico ci fa paura, ma svela la fragilità della nostra costruzione ideologica e ci pone davanti a un bivio: confermarci nell’ovvietà del nostro mondo, che con spirito genuinamente coloniale consideriamo l’unico possibile, o accettare le ambasce della fragilità delle nostre costruzioni ideologiche per tentare di andare oltre.

Ragionare sul museo, quando morte e distruzione sembrano aver preso il sopravvento, può apparire improprio; ma non c’è dubbio che i devastatori siano, più o meno, l’anima nera di quelle statue che riprende fiato.