«Il licenziamento del personale del pubblico impiego non è disciplinato dalla “legge Fornero” bensì dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori». Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza 11868 della sezione Lavoro depositata ieri.

La Cassazione ha accolto le ragioni del ministero delle Infrastrutture e trasporti contro la sentenza della Corte d’appello di Roma del dicembre 2014 sul caso di un funzionario licenziato perché faceva il doppio lavoro. La Corte d’Appello di Roma gli aveva riconosciuto sei mesi di indennità risarcitoria, come prevede la legge Fornero nel caso di licenziamenti legittimi ma con violazione delle procedure di contestazione disciplinare. Nel ricorso in Cassazione il ministero aveva fatto reclamo contro i sei mesi di risarcimento. La Corte ha stabilito che per il pubblico impiego valgono le garanzie dello statuto dei lavoratori del 1970: in caso di licenziamento senza giusta casa, il lavoratore va reintegrato sul posto di lavoro e non semplicemente indennizzato.

Un’interpretazione che nega quanto affermato in altra sentenza dello scorso novembre. La nuova sentenza «conferma le nostre valutazione – sostiene il segretario confederali Uil Antonio Foccillo – è ovvio che nel pubblico impiego, a tutela del cittadino, è necessaria la reintegra e non il semplice rimborso». «Speriamo che ora la querelle giuridica non venga strumentalizzata da chi vuole attaccare il pubblico impiego» sostiene il segretario confederale Cisl Maurizio Bernava. Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro al Senato, ribadisce: «Dovremmo completare il percorso di riforma finalmente assumendo anche in Italia quel diritto europeo che in nessun paese ipotizza il reintegro obbligatorio, come ancora da noi esiste anche dopo il Jobs act». è intervenuto anche Pietro Ichino (Pd), uno degli ispiratori del Jobs Act, che è arrivato a contrapporre precari statali ad assunti dipendenti: invece di stabilizzarli, Ichino chiede «l’applicabilità della nuova disciplina dei licenziamenti anche nel settore pubblico». Invece di garantire a tutti gli stessi diritti, si vuole toglierli a qualcuno per rendere tutti precari.

La sentenza evidenzia un aspetto paradossale del diritto del lavoro ridotto a un colabrodo. Se per i lavoratori pubblici vale l’articolo 18, per tutti i lavoratori privati assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act il 7 marzo 2015, la situazione è completamente diversa: possono essere licenziati in ogni momento. In Italia esistono dunque due regime diversi. Per Aldo Bottini, presidente degli Avvocati giuslavoristi italiani, riuniti da ieri a Perugia, questa situazione «rappresenta una disuguaglianza, una discriminazione non so quanto sostenibile anche da un punto di vista costituzionale». Bottini sottolinea che il contrasto tra le due sentenze «andrà chiarito dalle Sezioni unite o da un intervento legislativo di interpretazione autentica, che peraltro il governo aveva annunciato di voler fare fin dallo scorso anno, quando entrò in vigore il Jobs Act ed era in discussione la riforma del pubblico impiego».

Alberto Piccinini, avvocato bolognese e membro della consulta giuridica della Cgil, la disuguaglianza sarebbe tripla: «Per i privati oggi ci sono due regimi in essere – afferma – gli assunti prima del 7 marzo ai quali si applica la legge Fornero. Per chi è stato assunto dopo si applica il Jobs Act e dunque la libertà di licenziare. Per i dipendenti pubblici, invece, vige lo statuto dei lavoratori.

Il trattamento dei lavoratori pubblici ha una ragione: in questo caso si presume che il datore di lavoro, cioè la pubblica amministrazione, non abbia la volontà di eliminare personaggi scomodi, sindacalisti, persone con handicap – aggiunge Piccinini – Tuttavia nel settore pubblico non è impossibile licenziare: il dipendente non è inamovibile». Dopo il Jobs Act, la situazione è cambiata: vige «una diseguaglianza di fondo – continua Piccinini – c’è una violazione dell’articolo tre della Costituzione: nell’ambito della stessa azienda ci possono essere lavoratori con le stesse mansioni, ma soggetti a regimi notevolmente diversi. Facciamo l’ipotesi di un licenziamento collettivo: alcuni lavoratori avrebbero il diritto ad essere reintegrati, altri no». Sulla tesi di Renzi per il quale il Jobs Act, e dunque la libertà di licenziare, è la principale ragione di un «aumento» dell’occupazione, Piccinini ribadisce: «In realtà le imprese assumono di più a causa degli sgravi contributivi finanziati dalla legge di stabilità del 2014 e validi fino al 2017.

Si tratta dunque di un provvedimento approvato tre mesi prima del Jobs Act. Del resto, questa misura era stata in sostanza adottata già nell’ambito della riforma Fornero. In tutti i casi, oggi non si può parlare di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Questi contratti sono molto più precari di prima, più precari addirittura degli stessi contratti a termine». La Cgil sta raccogliendo le firme per un referendum di alcune parti del Jobs Act, insieme a un quesito contro i voucher e sugli appalti. La consultazione dovrebbe tenersi nel 2017: «Il referendum semplificherebbe l’orizzonte – afferma Piccinini – modificando l’articolo 18 esistente nel testo Fornero. La soglia dell’applicazione per la reintegrazione del lavoratore non sarebbe più di 15 dipendenti ma di 5. Il numero dei lavoratori interessati sarebbe maggiore rispetto a quello dello statuto del lavoratori e si potrebbero tutelare i lavoratori assunti con il Jobs Act».