La scuola d’estate è quella che Luca Ronconi tiene a Santacristina, in mezzo alla campagna d’estate, un luogo bello, semplice, essenziale in cui arrivano allievi attori immergendosi in una didattica che è prima di tutto esperienza di vita. È qui che arriva con la sua piccolissima troupe Jacopo Quadri, l’obiettivo è quello di raccontare il maestro che è stato una presenza, seppure lontana, della sua infanzia, da figlio del critico teatrale Franco Quadri, che ha scelto in cammino opposto, il cinema da montatore – di Bertolucci, Martone, Rossetto, Gianfranco Rosi, Marco Bechis per citarne solo alcuni – con qualche incursione anni fa nella regia (i molto sperimentali Statici).Ma La scuola d’estate non è un «ritratto» di Luca Ronconi in senso canonico, in cui si ripercorre la sua carriera da grande regista. Quadri ce lo mostra nel fare, nella «vita al lavoro» delle lezioni quotidiane catturandone passione, puntiglio, genialità. Nel confronto con gli allievi, in cui le parole dei testi frammentati e senza ordine viaggiano nell’aria, diventano fisiche, tattili saporose, sono piene di sorpresa spiazzando ogni senso, anche il più avvertito. E all’interno di questo, Quadri ci porta con estrema delicatezza vicini alla persona Ronconi, e lo fa senza clamori, punteggiando questo incontro di un «intimità» dichiarata con naturalezza e rispettoso pudore, in una dimensione che lo rende vicino anche a chi di teatro non sa poco e nulla. Al tempo stesso questo viaggio mette in gioco il regista nel confronto con la figura paterna, il critico Franco Quadri, in un duplice on the road emozionale di scoperta e sentimento – prossima tappa Eugenio Barba e l’Odin insieme a Davide Barletti. La scuola d’estate dopo il Festival di Torino sarà a Milano a Filmmaker (evento speciale domenica 7 dicembre). «Ronconi è una di quelle figure legate alla mia infanzia, che erano una presenza costante per me anche se non li conoscevo direttamente. Ai miei occhi apparivano come una specie di miti. Quando è mancato mio padre, visto che appunto erano tutti legati al suo mondo di critico teatrale, ho sentito il bisogno di andarli a ritrovare. Fare un film su di loro era il mio modo per conoscerli e anche per avvicinarmi a lui».

Hai scelto di filmare Ronconi nella scuola di Santacristina, insieme a dei giovani allievi. L’idea di escludere le prove a teatro di uno dei suoi spettacoli l’hai avuta subito? 

Sì, la dimensione della scuola mi sembrava ottimale: lui era sicuramente più a suo agio che in un contesto commerciale, e gli allievi a loro volta erano nella dimensione giusta per essere ripresi. Era un po’ come se io mi fossi autoinvitato al cospetto del maestro/mito. Certo eravamo anche dei privilegiati, perché potevamo filmare qualsiasi cosa. All’inizio avevamo ottenuto di rimanere una sola settimana, poi ci ha concesso più tempo.

Come hai organizzato le riprese? 

Filmavamo tutto con più macchine da presa che coprivano la zona delle prove. In realtà non avevamo chiaro cosa stavamo facendo, cercavamo di seguire tutto, anche i momenti al di fuori delle lezioni per individuare dei possibili protagonisti all’interno di una dimensione comunque corale. La sola certezza è sempre stata quella di rimanere dentro la scuola. Le prove sono il momento centrale, poi ci sono gli aneddoti , cosa significa lo studio. Con i ragazzi abbiamo filmato molto, e una volta al montaggio mi è stato chiaro quali di loro c’erano di più. Mentre giravo mi era chiaro invece che c’erano aspetti che non avevamo previsto come le loro crisi, quando tutto può crollare, che a volte non traspaiono nelle prove.

Ronconi è narrato nel fare. Lo vediamo spiegare i testi, i toni, i gesti, l’essere teatro della parola. Non ci sono invece racconti privati a parte la conversazione messa in scena con Elettra Welleby che insieme all’intervista più «ufficiale» è il solo momento fuori da questo. 

L’intervista con Elettra è una parte importante nel mio viaggio, è quella che fece a Ronconi Dacia Maraini nel ’72 , apparsa in appendice al libro di mio padre su di lui (Il rito perduto, Einaudi 1973). Le domande erano molto personali, e alla fine del libro si arriva a parlare della sua infanzia difficile durante la guerra, del padre che lo aveva abbandonato. Erano domande che io non avrei mai fatto, così gli ho proposto, come se fosse un gioco, di rifare quella vecchia intervista oggi. E la cosa più sorprendente è che ancora faceva fatica a rispondere, difatti alla domanda su come era la sua famiglia, dice: «Una famiglia scassata».

E invece nella tua intervista? 

Volevo che fosse fatta al tavolo dove lo vediamo sempre coi ragazzi ma dall’altra parte, dove stanno gli allievi. Nel dialogo con lui mi interessava più che parlare di teatro o delle cose che ha fatto e che io non conosco, far emergere cosa un grande maestro anziano può lasciarci. Lui parla di altro, i suoi cani avvelenati da ignoti, la malattia che lo obbliga alla dialisi, la natura, anche perché non parla mai di sè, per lui infatti esiste solo il teatro, la persona non è importante. E i cani erano un modo per toccare il tema degli affetti o della morte, per guardarlo come una persona, che è ciò che mi ha spinto a realizzare questo film. L’idea cioè di avvicinarmi a questi maestri e dunque di avvicinarli allo spettatore, emozionandomi con loro. Anche parlare della vita in campagna, in questo contesto, è interessante. La campagna ti obbliga sempre a fare qualcosa, si usano le mani, in modo molto vicino a come lui intende il lavoro sui testi. Lo studio diviene altro, ed è esaltante vedere come lo spiega ai ragazzi, la sua generosità anche se pretende molto.

Questo tuo viaggio ti porta nell’universo di tuo padre. A cosa risponde questa esigenza? 

Diciamo che è un modo per avvicinarmi a lui ora che non c’è più. E per farlo uso il mio strumento, cioè il cinema. In queste persone, Ronconi, Barba, ritrovo con intelligenza cosa rimane della sua esperienza. E se anche mi ha fatto arrabbiare ho cercato di prendere le cose importanti rimaste, entrando in un mondo che non era il mio. A 50 anni non ci sono più padri, e dopo tanti anni in moviola, al montaggio, è come se si fosse chiuso un cerchio.