L’imminente riapertura dei luoghi culturali non è un’operazione scontata, sarà a macchia di leopardo e rischia per alcune realtà di trasformarsi in un boomerang. Oltre alle procedure per la sicurezza che richiedono tempo e soldi, su molti musei, siti e sale espositive grava l’incognita di un’economia ferma e l’incertezza su ciò che avverrà, una volta perso gran parte del turismo internazionale e la possibilità di organizzare nuove mostre a breve periodo. Il settore è in sofferenza, le casse vuote, le città d’arte in ginocchio e a molte aperture potrebbero seguire altrettante chiusure, per non sostenibilità delle spese. Molto dipenderà dagli aiuti (il ministro Franceschini ha fatto sapere che nell’ultimo Dl per cultura, turismo e spettacolo ci saranno 5 miliardi) ma soprattutto dalla rimodulazione di quella scellerata idea di «museo-impresa» che in questi anni si è preferito promuovere. Le soluzioni emergenziali necessitano, infatti, di un disegno progettuale che sappia riscrivere le coordinate concettuali dentro le quali inserire i «beni culturali».
Intanto la Sicilia, con i suoi preziosi siti archeologici, ha già lanciato un grido di allarme, così il Museo nazionale etrusco di Roma, ma pure a Firenze le cose non volgono proprio al meglio e il sindaco ha fatto sapere che i musei civici non riapriranno. Luoghi-star come gli Uffizi hanno una disponibilità maggiore di risorse per far fronte allo stallo economico, eppure dovranno comunque affrontare una drastica riduzione di visitatori, mai sperimentata prima. Ne abbiamo parlato con il direttore Eike Schmidt.

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I luoghi della cultura – i più fortunati – si preparano a una riapertura che rappresenterà anche un nuovo capitolo della fruizione. Cosa hanno significato le porte chiuse per due mesi e quali difficoltà si prevedono?
La chiusura forzata ha spinto le istituzioni culturali a inventare nuove forme di offerta attraverso il digitale, aprendo a tutti, seppur virtualmente, le porte dei nostri musei. È una soluzione molto democratica, da parte nostra aggiungerei anche coraggiosa visto che l’abbiamo portata avanti con mezzi e personale limitati, in ottemperanza alle prescrizioni sanitarie. Attraverso Facebook, Instagram, Twitter abbiamo cercato di stabilire appuntamenti quotidiani che confortassero e facessero riflettere, rivolti anche un pubblico internazionale grazie a colleghi poliglotti. Per i più giovani, il nostro canale Tiktok propone video ironici e dissacranti che sono stati molto apprezzati. Ma la «visita» digitale rimane comunque un’esperienza surrogata che non può sostituire quella diretta. In questo periodo anche i grandi teatri e festival internazionali come quello di Berlino (l’annuale Theatertreffen) hanno offerto i loro spettacoli in streaming. È comodo vederseli gratis dal divano, ma mentre si coglie bene il senso delle performance, con luci a effetto e inquadrature ravvicinate, rimane la sensazione di vivere un’esperienza limitata, priva del respiro d’insieme e del senso di coralità, di vivezza, che lo spettatore prova quando sta in sala e lo sguardo può spaziare su tutto il palcoscenico. Quello che ci è mancato durante le necessarie misure restrittive è stata la centralità umana di questa coralità, mentre le regole sanitarie che rimangono – distanziamento sociale, mascherine e quant’altro – ci ricordano il rispetto che dobbiamo al prossimo.
Il successo dei nostri canali social ci ha insegnato che il museo non è un posto destinato solo agli storici dell’arte e agli intellettuali sofisticati, ma – almeno nel caso delle Gallerie degli Uffizi – un simbolo di identità nazionale, un motivo di fierezza, un luogo educativo per eccellenza: il museo deve essere un po’ la «casa» di tutti. E qui mi riferisco anche ai più piccoli e all’importanza che hanno per loro le attività didattiche, che durante la chiusura, nel nostro caso, sono state potenziate (abbiamo un seguitissimo canale Facebook dedicato ai bambini, a cura del Dipartimento per l’educazione).
Le difficoltà che ci aspettano nella fase intermedia sono soprattutto organizzative. Quelle economiche, derivate dalla mancanza di introiti con i biglietti, ci impongono semmai di spostare agli anni prossimi gli interventi meno urgenti. Mancheranno i visitatori internazionali – è un danno per tutto l’indotto turistico – ma proprio ciò consentirà a chi vorrà venire un’esperienza come non era possibile viverla da oltre mezzo secolo. Con la metà dei visitatori, solo gli italiani, lo spazio a disposizione di ciascuno sarà più che raddoppiato, e la permanenza nelle sale più calma, rilassata. In pratica, sarà un’occasione unica per sentirci, dentro al museo, ospiti-padroni: sarà una passeggiata nelle sale come nei secoli passati facevano i Granduchi.

Gli Uffizi sono spesso presi d’assalto da un turismo di massa, fenomeno non proprio positivo se non nei numeri e nella bigliettazione… Eppure la cultura non può essere solo una questione di numeri. Cosa ne pensa?
È il momento giusto per ripensare a come organizzare – e non solo sfruttare – il turismo. Adesso o mai più. Ma per riconvertire tutto il sistema allo slow tourism occorrerà intanto interrompere il ciclo vizioso di domanda-offerta, badando più alla qualità e meno ai numeri, che hanno senso se spalmati su tutto l’anno e su un’area più ampia. È inutile proporre ai turisti itinerari diversi, magari le splendide ville medicee, non meno belle di quelle del Brenta, se poi per arrivarci non ci sono i mezzi pubblici, o non sono sufficienti. Ci si lamenta che il centro è tutto colonizzato da airb&b e bed & breakfast: allora bisogna agire sui siti che offrono queste strutture, far partire un controllo di qualità più severo, deliberalizzare questo mercato e imporre di rispettare dei limiti quantitativi e qualitativi. La movida rovinava le nostre notti, è vero, ma anche perché scarseggiano alternative di qualità. I cinema sono diventati pochissimi, i teatri si contano sulle dita della mano, gli spazi per la musica dei più giovani ormai sono solo le discoteche. Se pochi fiorentini abitano in centro, a chi servono le botteghe artigiane, i restauratori, certe attività destinate proprio agli abitanti? Ovvio che il fruttivendolo viene sostituito dall’ennesimo negozio di pelletterie o di ciarpame fatto dall’altra parte del pianeta, e via discorrendo. La colpa è anche nostra, locale: i soldi entrano più facilmente sfruttando i turisti occasionali. Dobbiamo ripartire da un’offerta più selezionata, più di qualità, più ecologica, e soprattutto più limitata. Sono contrario a misure dittatoriali come il numero chiuso nelle città: il numero si chiude naturalmente se gli abitanti e il governo cittadino cooperano nel selezionare l’offerta.

Crede che la diffusione del patrimonio online possa abbattere diffidenze e barriere, convincendo qualcuno in più che sia un bene comune?
Senz’altro. In questo periodo di lockdown, l’arte e i musei sono diventati ancor di più una forma di ombrello identitario, un bene nel quale riconoscerci tutti. Il tempo a disposizione e l’offerta virtuale sono stati una buona combinazione per avvicinare anche fasce della popolazione che prima erano poco o nulla interessate all’argomento. E vista l’equazione conoscenza = rispetto, immagino che i comportamenti scorretti e i vandalismi possano diminuire. A prenderci cura siamo in tanti, e chi lavora nell’ambito museale ha mostrato in questo periodo una fortissima motivazione, forse dovuta anche alla scoperta che la nostra è, prima di tutto, una missione sociale. Gli ottimi introiti degli Uffizi negli anni scorsi non sono stati destinati a un inutile accumulo, ma a sostenere i lavoratori e le Gallerie anche in periodi come questi. La cura c’è stata, ci sono stati gesti commoventi arrivati proprio nel periodo più buio, come la donazione dell’importantissima collezione di disegni di Carlo Pineider al nostro Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, ci sono stati gli Amici americani degli Uffizi che hanno continuato a sostenerci con donazioni, e non parlo delle lettere di sostegno arrivate dagli artisti – da ultimi Cai Guo Qiang e Antony Gormley – che qui hanno esposto le loro opere. Anche i cittadini ci hanno sostenuto con messaggi di incoraggiamento e di gratitudine. È un segnale di partecipazione civile che rimarrà nel tempo.
L’esperienza emergenziale potrebbe suggerire un cambio di passo e una maggiore collaborazione fra importanti realtà culturali italiane?
La collaborazione c’è già in varie forme: pensi alle esposizioni nazionali e internazionali, alle collaborazioni con le Università e vari centri di ricerca, alle mostre più piccole e selezionate che organizziamo ogni anno in cittadine del contado e anche fuori regione, continuando una pratica inaugurata da Anna Maria Petrioli Tofani una ventina d’anni fa. Ma le posso fare un esempio concreto di collaborazione virtuosa: il 17 gennaio 2018 le Gallerie degli Uffizi e il Polo museale della Toscana hanno presentato un accordo per la valorizzazione del Museo archeologico nazionale di Firenze. Ogni biglietto degli Uffizi comprende anche l’ingresso gratuito all’Archeologico. Abbiamo poi allargato questa formula nell’autunno 2019 con l’Opificio delle Pietre Dure. Il Museo archeologico nazionale è uno dei più rilevanti d’Europa, ospita una collezione di antichità egiziane molto ricca, seconda solo all’Egizio di Torino, ma pochi lo sanno. Quello dell’Opificio delle Pietre Dure è un altro gioiello dove raramente i turisti si recano, eppure è unico nel suo genere per la preziosità e rarità delle opere esposte, tutte testimonianze di un’arte prettamente fiorentina e nei secoli scorsi ricercatissima in tutte le corti d’Europa.