«The first Monday in May». Anche quest’anno, in data convenuta, e cioè al vernissage della mostra del Costume Institute diretto da Andrew Bolton, si sono accalcate sulle scale faticose del Metropolitan Museum celebrità splendenti dello star system americano, scelte fra costa est e ovest dal bon ton giudizioso di Anna Wintour. Così per il gala d’avvio dell’evento titolato – senza vere sorprese – Camp: Notes on Fashion l’istituzione sulla Quinta ha accolto una sfilata di sosia della Taylor, di confusi ricordi dell’immortale kitsch cocteauviano, insieme con lo scomodo ‘omaggio’ imbastito da Katy Perry ai candelabri di Liberace (e al suo sublime cattivo gusto).
In una folla fitta di esercizi ben composti e di pensieri fuori tema, la vera regina della lussuosa prom night è stata Joan Collins d’après Joan Collins nelle vesti di Alexis Morell Carrington Colby Dexter Rowan, suo imperituro alter-ego soap-operistico: un numero chiaramente fuori gara per transustanziazione innegabile del leitmotiv della festa. Tuttavia un clamore durevole l’ha sollevato il completo gender-fluid – gessato e doppiopetto – offerto ai fotografi dall’attrice Lena Waithe, graffito sulle spalle con un memento di tenore movimentista: «Black Drag Queens Invented Camp».
A parte qualche errore d’ortografia, il motto – acido per un red carpet aperto dalla ‘Funny Girl’ Lady Gaga – ha certo richiamato alla mente dei più gli ascolti stratosferici di un reality di successo come Drag Race, presentato da RuPaul su Vh1 e ormai all’undicesima stagione; gli spettatori avvertiti – in massa lungo le transenne o seduti di fronte alle foto postate su Instagram – avranno però ricordato la performance che, appena quattro anni fa, ha travolto uno dei landmark della mappa newyorkese, e cioè il bianchissimo monumento ai moti di Stonewall, commesso a George Segal nel 1979 ma istallato in Cristopher Park solo nel ’92. Una notte qualunque della calda estate 2015, infatti, le meste silhouette delle due coppie same-sex immaginate dallo scultore con l’intento naif di ricordare «la gentilezza … degli omosessuali», si sono viste scurite nei pallidi incarnati e rivestite da tenute appariscenti, incluso un corredo di parrucche colorate, sotto a un cartello bellicoso con su scritto «Black + Latina trans women led the riots. Stop the whitewashing».

David Hockney, “Divine”, 1979, Pittsburgh, Carnegie Museum of Art

 

Il rilievo di una rivendicazione siffatta nell’attuale dibattito statunitense sulla cultura queer (e sulla sua archeologia, dagli anni sessanta) è d’altronde ribadito da un’iniziativa che – a distanza di un’ottantina di strade – dialoga proprio con l’evento del Met, perfino nel riscontrarsi di nomi comuni lungo gli elenchi approntati dai diversi curatori (l’ineludibile Robert Mapplethorpe, il meno commentato Hal Fischer, ad esempio): pensiamo cioè all’esposizione Art after Stonewall 1969-1989, aperta fino al 20 luglio nelle sedi della Grey Art Gallery (su Washington Square) e del Leslie-Lohman Museum, ma destinata a un tour ampio fra Miami e Columbus.
Il valore ‘celebrativo’ di un simile progetto è palese nel corso del cinquantenario in cui Manhattan è destinata a ospitare il World Pride in memoria proprio della rivolta spontanea che – nella notte del 28 giugno 1969 – fece di un frequentato bar dell’isola il luogo-simbolo nella storia ‘pubblica’ della lotta per i diritti di cittadinanza di gay, lesbiche e transessuali: tanto più, allora, appare significativo lo sforzo manifesto di ampliare il ‘canone’, sostenuto in quest’occasione da Jonathan Weinberg e Drew Sawyer seguendo una sequenza cronologica, pausata nondimeno in concomitanza con alcuni ‘nuclei forti’ per il discorso sull’identità di genere.
In una prospettiva siffatta, le prime sale – allestite al museo su Wooster Street – intendono collocare in un ampio contesto radicato nei fatti quella serata speciale, durante la quale gli avventori dello Stonewall scelsero di reagire alle continue prevaricazioni poliziesche. Tale missione è consegnata innanzitutto al ricordo dolcissimo di un testimone diretto, Thomas Lanigan-Schmidt, il quale – affermando oggi in catalogo come «la cosa straordinaria» di quel locale fosse «la varietà della folla, il poter ballare un lento insieme» – sottolineava già in un suo lavoro dell’ 89, presente in mostra: «eravamo ratti di strada. Portoricani, neri, bianchi del nord e del sud. Debby la Lesbica e una queen cinese chiamata Jade East. I figli e le figlie di postini, di mamme disoccupate, taxisti, operai e infermiere». Il medesimo intento è poi affermato dall’importanza riconosciuta alle figure di Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera (nelle foto di Bettye Lane e Diana Davies), alle voci di artiste e femministe come Kate Millett o Louise Fishman, dalla preferenza per icone inclusive quali il poster firmato da Peter Hujar per il Gay Liberation Front nel 1970 o quello, meno noto, eseguito da Lee Mason per il Gay-In III, festival tenutosi al Griffith Park di Los Angeles in quegli stessi mesi.
Suona addirittura come un’implicita (e senza dubbio involontaria) risposta al ‘wildismo’ della Sontag ricorrente nelle stanze del Metropolitan il fatto che al Leslie-Lohman si menzioni invece Mother Camp, un libro seminale scritto da Esther Newton nel 1972 e dedicato all’arte dei ‘Female Impersonators’; o che alle perfomance irriverenti delle Cockettes, si affianchino icone butch sul tipo di Bulldagger of the Season, realizzata da Honey Lee Cottrell per la rivista erotica per sole donne «On Our Backs».
Un’identica démarche è del resto perseguita nelle altre sezioni, quella cioè incentrata sulle opere prodotte fra i Settanta e gli Ottanta con l’intento di esaminare o attestare le declinazioni polimorfe della sessualità (segmento aperto da una sorridente foto di Audre Lorde, chiusa dal ritratto, sornione, della Bourgeois con l’anatomica scultura Fillette sottobraccio) o quella consacrata piuttosto alle poetiche della queerness postmoderna, nei racconti indecifrabili di Duane Michals, nella fragilità liminale di Greer Lankton, nell’epica erotica di Nan Goldin (punta di diamante di una ‘leva’ educatasi alla School of the Museum of Fine Arts di Boston, inclusiva ugualmente di lirici cantori della fatta di David Armstrong e Mark Morrisroe, anch’essi alla Grey Art Gallery). Non sfugge a una simile intenzione neppure l’ampia campionatura delle culture visive suscitate dall’Aids, al punto che – alla ricca galleria dei manifesti prodotti da Gran Fury, nell’ambito d’azione di ACT UP, o ai poster di Keith Haring – si associa il lavoro di collettivi come il Foundation Women’s Support Group, certificato dagli scatti di Ann Patricia Meredith.
L’eredità più attuale di Stonewall si legge dunque nelle sale conclusive, attraverso un caleidoscopio di voci variate in termini di etnia, di sesso biologico e di identità di genere, allargato al punto da includere i manierismi dei Ball e del Voguing (incisi in un progetto di oral history) e le esperienze dei gruppi s/m newyorkesi (Nayland Blake), l’underground punk-lesbico (Leon Mostovoy) e l’universo lgbtq afro-americano (Lyle Ashton Harris). Una selezione forse troppo ampia, incerta di fronte a poetiche divergenti, a pratiche distanti; eppure questa chiusa – proprio grazie alla labilità del partito estetico imposto alle ultime tappe del percorso – si rispecchia con coerenza perfino nel patchwork testuale del volume di accompagnamento, per il quale la rinuncia alla purezza della forma saggistica, allaccia interviste a memoir, riflessioni ex post a attestati di presenza: una soluzione al gioco odioso dell’«io c’ero/io non c’ero», sciolto nel sentimento partecipato di una comunità, nella prospettiva di una storia collettiva, intergenerazionale.