Una congiunzione astrale particolarissima ha determinato l’incontro fra George Wong e Lorand Hegyi: il più intraprendente e appassionato, culturalmente, dei capitani d’industria cinesi (un impero immobiliare di radice familiare, nato a Hong Kong); il più inquieto e curioso dei critici d’arte contemporanea europei, ungherese di stanza a Saint- Étienne come direttore del Musée d’art moderne, che è il secondo di Francia dopo il museo del Centre Pompidou. Nel suo studio pechinese al Parkview Green FangCaoDi, il centro commerciale di nuova generazione (progettato da Winston Shu) del quale è proprietario, George Wong si circonda – omaggio dovuto – dei classici dell’arte contemporanea cinese, dal maestro di tristezza incantata Zhang Xiaogang all’iperrealista cinico Yue Minjun, ma un interesse più curioso, più lunare, lo ha conquistato nell’ultima stagione: l’arte italiana contemporanea, dagli anni sessanta a oggi.

Mallevadore intrigante e fin ipnotico, Lorand Hegyi, che con l’Italia ha ormai un rapporto di lunga data: allergico al formalismo, che invade ormai la scena internazionale travestendo di sublimità il freddo calcolo monetario, Hegyi sembra aver trovato nell’arte nostra, così come in quella austriaca soprattutto di radice azionista (lunga la sua esperienza viennese, come direttore, dal 1990 al 2002, del museo Ludwig), una sponda per tenersi fermo alle sue inquietudini, a una posizione critica anti-canonica, centrata su un discrimine di tipo esistenziale e vitalistico. Date le premesse, non può essere un caso l’incontro, relativamente recente, con la Cina odierna, il cui tumulto culturale, pieno di ‘offese’ al gusto europeo, ha fatto breccia in un critico che cerca sempre, come recitava il titolo di una sua mostra, «la casa, il corpo, il cuore». Nel 2006 Hegyi aveva ospitato a Saint-Étienne l’arte macerata monocroma di Yan Pei-Ming, divenuto nel frattempo star, e di recente ha curato a Firenze, Galleria Bagnai, la prima mostra europea del Picabia post-moderno Wang Luyan, con cui ha stabilito un sodalizio speciale; in generale si sente attratto dalla profusione drammatico-gioiosa, magico-catastrofica, dei linguaggi della scena cinese, dal rischio, che essa comporta, di dover lasciare da parte la bussola estetica in favore di una dimensione in cui le forme si pongono, innanzitutto, come nuova antropologia (è qui avvertibile la lezione di Szeemann).

Ma non siamo a Pechino per curiosare sulle novità – ce n’è una al giorno – che propone l’arte cinese, nelle gallerie del 798 Art District (dove anche George Wong è presente in grande, così come a Shangai, Hong Kong, Taipei e, prossimamente, a Singapore) o di Chaochangdì, le due vetrine mondiali di questi fermenti a partire dagli anni post-maoisti, piuttosto per ritrovarvi, con l’ausilio dello straniamento ambientale, i termini più propri della nostra recente avanguardia.

Nel Business District

Attratto dall’arte italiana, George Wong ha pensato bene di farne un perno visivo del suo operato urbanistico e architettonico, innanzitutto nella sua centrale di Pechino, il Parkview Green, grattacielo triangolare eco-sostenibile in vetro e acciaio che prospetta sulla DongDaQiao road, proprio al centro del distretto degli affari, nei dintorni il polmone verde ricreativo del Rìtán Park e le ambasciate internazionali. All’ingresso esterno dell’edificio, sulla via trafficatissima nella caligine grigiastra dell’eterno smog pechinese, è l’arte italiana a dare il segno, con tre gigantesche teste, Tre per te, di Gianni Dessì: rossa, gialla, nera, si direbbero chiamate a un controcanto meditativo, a un suggerimento di orizzonte non sai se metafisico o sociale. D’altra parte Dessì, con la stregata barbarie della sua produzione plastica (subito all’entrata, sulla sinistra, appare, come un enorme frammento da età sepolte, il volto giallo del ‘cinese’ Ezra Pound), sembra poter fornire un modello di figurabilità, all’insegna del non- finito, dell’interrogativo semantico, in una scena artistica che fa troppo spesso della figura un feticcio e un’imposizione. Variamente punteggiato di questi feticci – le elastiche sculture rosso-lacca di Chen Weng Ling, i quadri con dark ladies rosa-shocking di Feng Zhengjie…, che non stonano accanto a pezzi cospicui di Salvador Dalí, del quale George Wong è stato accanito collezionista –, il Parkview Green annovera però anche, a contrasto, monolito di lucente acciaio inox, una delle dentate macchine celibi di Wang Luyan.

L’idea di arredare con l’arte gli spazi, quattromila metri quadrati, del commercio di lusso, rappresentato da una scelta teoria di griffes internazionali sia nella moda (p. e. Gieves & Hawkes, la sartoria dei re d’Inghilterra), sia nel mangiare, sia nell’elettronica, sembra consustanziale a una realtà socio-culturale quante altre mai ibrida e mescolata, e anche l’occasione della nostra venuta, la mostra Challenging Beauty. Insights of Italian Contemporary Art, che si tiene all’ultimo piano del Parkview Green, sente di questa ibridazione. Ma discretamente, perché la collezione di arte italiana di George Wong è presentata «a parte», lungo due ali dagli spazi neutri: bianchi, vasti e respiranti, di forma spiovente. Bisognava venire a Pechino per vedere bene spiegata, in icastica successione, la trama complessa della nostra ultima (e penultima) stagione. Logico che, trattandosi di una raccolta privata, non possa ambire all’esaustività museale, ma, fatta eccezione per alcuni vuoti da assolutamente colmare, è proprio la traccia di una sensibilità discriminante come quella del curatore Lorand Hegyi a dare leggibilità e trasparenza all’insieme, così come alla storia di riferimento.

Attorno a Torino e Roma

Una corte di snodo terrazzata, ornata di sculture del toscano Roberto Barni, divide le due gallerie introducendo da un lato agli artisti che hanno operato nell’Italia settentrionale, dall’altro centro-meridionale. Le prevalenze, evidentemente, Torino e Roma. Non c’è da stupirsi che Lorand Hegyi, refrattario alla gelida omologazione del linguaggio internazionale, vada alla ricerca, come un malinconico e divertito Diogene, del punto di rottura perfino regionalistico, componente che peraltro fa ormai parte, abbastanza saldamente, del discorso critico sull’arte nostra recente. Un approccio che del resto, al contrario, aiuta a cogliere con rara chiarezza i frequenti giochi di sponda nord-sud.

Il visitatore cinese non addentro alle problematiche italiane stenterà sicuramente a sceverare la sottile concettualità che riposa nel «ritorno alla pittura» del poverista «torinese» Salvo: il grande quadro 1981-’84 Al bar, dove la memoria guttusiana delle sue origini viene filtrata da un gioco alfabetico di purezze cromatiche e geometriche, gli si presenterà forse in figuratività pretta, ma non per questo ne resterà insensibile. Risponde certo di più alle urgenze del suo mondo culturale il pittoricismo della Transavanguardia, quadri scelti con un’attenzione alla qualità che li distoglie completamente (agli occhi nostri) da ogni residuo di gravame ideologico, per isolarli nella loro singolarità estetica, nella loro challenging beauty: da segnalare, in particolare, le due tele di Sandro Chia. Ma non possiamo credere che di «bellezza provocante» si nutra il visitatore cinese dinanzi alle opere degli artisti già appartenenti alla scuola romana di San Lorenzo, per i quali la bellezza si pone come problema e inganno, appare e si nasconde, trovandosi all’incrocio di ben più radicali dispute sul senso dell’immagine e della percezione: altrettanto ben scelti, Ceccobelli, Dessì, Pizzi Cannella, Gallo, Nunzio e Tirelli costituiscono forse il nucleo più rappresentativo per compattezza dell’intera raccolta. È vero che, come data delle opere esposte, incontriamo ciascuno di loro a uno stadio del proprio percorso ben lontano dal momento collettivo degli esordi nell’ex pastificio Cerere, ma fra i raggiungimenti magnifici quali artisti «in proprio» che possiamo vedere al Parkview Green Museum (l’encausto con filosofo e toro di Giuseppe Gallo!) non viene quasi mai meno l’opzione originaria di rappresentare non il risultato ma la ricerca, di sottrarsi al culto del mestiere e alla confezione.

È proprio in questa direzione processuale che un innesto italiano importante come la collezione di George Wong può offrire spunti all’arte cinese, troppo satura di icone e proclami, anche se le avanguardie poverista e pop degli anni sessanta-settanta, alla radice del discorso, vi sono documentate, per adesso, solo a pelle di leopardo, con punte di eccellenza come il Saturno 1983-’85 di Mario Merz, dove un’iguana disseccata viene posta al centro di una sua grande replica «grafica» espressionista, inscritta in un cerchio verde; o come Il verde della foresta, 1977- ’78, dove un trentenne Giuseppe Penone sembra sillabare la sua poetica vegetale; o come il cielo di virgole stellari, 1978, di Alighiero Boetti.

Intriganti incertezze

Quanto alle generazioni più recenti, Lorand Hegyi si è sentito meno vincolato dall’obbligo di oggettivare storicamente e ha scelto dando voce, con più immediatezza, alla sua poetica critica: dal volto-sindone di Ugo Giletta all’altro, mostruoso e sofisticato con tracce di Jugendstil, di Guglielmo Castelli; dalla sagoma ossuta nera, graficamente tormentata, della Lupa di Paolo Canevari, ai set fotografici «del disastro» di Marina Paris, all’erbario di nylon sintetizzato in aerea messa in posa, tutta bianca, di Carla Mattii, Lorand Hegyi, come già nella recente mostra a Saint-Étienne Intrigantes Incertitudes, si interroga sul fiorire, dopo la fine delle neo-avanguardie, di casi particolari, tenuti insieme non più da una scelta linguistica ma da una sensibilità ferita e esacerbata.

Usciti fuori da Challenging Beauty, il livido tramonto pechinese, visto attraverso le immense pareti di vetro dell’astronave di mister Wong, confonde le luci baluginanti della nuova era, spaventata da se stessa per l’inevitabile flessione del prodotto interno lordo. Ci aspetta un capretto arrosto nel giardino della casa-atelier, luccicante di macchine infernali, del nobile Wang Luyan. Ci aspetta un consesso di artisti che raccontano, fra le lacrime, i primi moti dell’avanguardia post-maoista. Le tracce di arte italiana che restano negli occhi assumono un valore sensibile: perfino la colonna sonora della mostra, O sole mio e Il padrino, con il suo candore interculturale, sembra contribuire a una risignificazione concentrata, a un nuovo inatteso sviluppo della storia del gusto.