C’è stato un tempo in cui ogni uscita di Stephen King la potevi comprare a scatola chiusa, per quanto rapido fosse nelle sfornare nuovi romanzi. Lo era tantissimo, più prolifico di lui solo Joyce Carol Oates. Sapevi in anticipo che quel libro lo avresti divorato senza riuscire a staccartene, convinto di avere a che fare con vampiri e fantasmi, immerso in un fumettone ipnotico, salvo accorgerti, una volta riemerso, che lo scrittore del Maine ti aveva parlato invece della vita di ogni giorno, di quel che succede a tutti nascondendolo dietro la facciata di quel che non succede a nessuno o solo a pochi, travestendo il racconto dell’America e del mondo reali dietro il velo della fantasia.

Non poteva durare, proprio come i Rolling Stones non avrebbero potuto incidere per tutti i cinquanta anni della loro carriera capolavori in sequenza come Let It Bleed e Exile On Main Street o Clint Eastwood non avrebbe potuto tenere sempre il livello altissimo delle sue fasi migliori. Gli stati di grazia sono per definizione transitori. I maestri sono quelli che, quando passano, invece di perdere il tocco si limitano a diventare più discontinui.
Lo Stephen King di oggi è appunto questo: un autore discontinuo. Quando arriva un suo nuovo libro non sai mai se sarà esagerato negli effettacci, granguignolesco, incapace di centrare il bersaglio (anche se una scintilla geniale quasi sempre resta), oppure una storia capace di reggere il confronto con i romanzi del periodo d’oro. Meno di due anni fa il lunghissimo 22/11/63 cadeva nel peccato mortale dal quale King sembrava essere miracolosamente intangibile: quello della noia. Oggi, con questo Joyland (Sperling & Kupfer, pp. 350 euro 19,90), colpisce a fondo con una storia che regge il confronto con i suoi romanzi migliori, e ne supera molti. Il segreto, forse, è che ormai meno spazio King concede alla maschera sovrannaturale, più il risultato è buono e a volte, come in questo caso, brillante.

Venditori di divertimento

Per gli standard del fluviale Stephen Joyland è un libro esile, e la trama è persino più esile, quanto di più lontano dai toni sovraccaricati in cui lo scrittore cade quando non riesce a dimenticare di essere il re dell’horror. Un ragazzo che, nel 1973, supera la prima delusione d’amore (si sa che The First Cut is the Deepest), lasciando per un paio di stagioni il college e andando a lavorare in uno di quei luna park, che allora ancora spuntavano ovunque nel cuore provinciale d’America, prima che i colossi come Disneyland occupassero, colonizzassero e cancellassero l’industria libera del divertimento: un posto che sarebbe piaciuto a Ray Bradbury, anche se il romanzo è dedicato a un altro maestro della narrativa popolare americana, Donald Westlake.

C’è anche un fantasma inquieto. C’è un serial killer, e chi l’ha detto che anche un assassino seriale non possa essere un tipo simpatico quando non affetta? C’è un ragazzo che potrebbe essere il gemello fragile e malato del Danny di Shining, col quale condivide il dono di vedere quel che nessun altro vede (non è certo un caso che Joyland sia stato scritto praticamente insieme a Doctor Sleep, che uscirà in settembre e il cui protagonista è proprio Danny Torrance diventato ormai adulto). Tutto questo c’è perché non si può chiedere a King di rinunciare al suo marchio di fabbrica e perché servono a tenere avvinghiato il lettore. Re Stefano non dimentica mai che il suo lavoro, proprio come quello dei professionisti del luna park, è «vendere divertimento». Pur essendo ormai un romanziere di genere quasi solo di nome, ha troppo rock’n’roll nelle vene e nella tastiera, per piegarsi a scrivere uno di quei tomi ponderosi, «difficili e noiosi», che affliggono le ore di una delle protagoniste, già funestate dalla malattia del figlio. Ma tutti questi elementi messi insieme occupano una postazione periferica e di contorno, nemmeno più il manto in cui di solito King avvolge il suo intimo realismo: un orpello.

Joyland parla d’altro. È un romanzo sulla perdita, sulla morte e sulla sua ingiustizia, sul lutto e sulla necessità di imparare ad affrontarlo perché altra via per diventare adulti non c’è. Parla del primo grande amore che ti lascia e non saprai mai cosa ci fosse in te che non andava. Parla della morte di un ragazzino eccezionale che ti costringe a fare i conti con la gelida ingiustizia della vita e della morte, tanto che King, celato dietro il suo protagonista ormai sessantenne, ancora si chiederà a fine libro perché un macellaio come Dick Cheney «continua a campare col suo cuore nuovo di zecca» e la stessa fortunata sorte non è toccata a «gente piena di talento come Clarence Clemons. Geniale come Steve Jobs».

La morte e l’obbligo di misurarsi con la fine e con l’insensatezza campeggiano dalla prima all’ultima pagina di questo romanzo. Lo tingono spesso di malinconia, mai di disperazione o pessimismo. È la storia di una vittoria, non di una sconfitta, di una prova superata, di un passaggio d’età compiuto al prezzo fisso dell’accettazione della perdita. Anche se la battaglia vinta nel luna park «Terra della gioia» a 21 anni da Devin Jones, il protagonista, è di quelle che dovranno poi essere combattute innumerevoli altre volte. Per sempre.

Un’irripetibile adolescenza

In una cinquantina di romanzi, nessuno dei quali ambientato in una metropoli, e in oltre 200 racconti King ha raccontato forse meglio di chiunque altro la pancia dell’America, quella rurale e provinciale che guarda New York ancor più da lontano che dall’altro lato dell’oceano. Col tempo, e nei suoi libri migliori, guarda ormai soprattutto a temi universali, continua anche a raccontare il suo mondo, l’America profonda della East Cost, di solito il Maine, stavolta la North Carolina. Per com’è, com’era e a volte, come in questo caso, per come non è più. A modo suo, Joyland è un omaggio malinconico e nostalgico a un modo di fare spettacolo e intrattenimento che non esiste più. Si svolge nell’estate e nell’autunno del 1973, subito prima che lo choc petrlifero d’ottobre e Watergate mettessero una volta per tutte fine alla lunghissima e scintillante, irripetibile adolescenza dell’America del dopoguerra. È dedicato alle fiere di paese, ai parchi di divertimento di provincia, alle donne e agli uomini che ci tiravano fuori da vivere come lavoratori vagabondi, indipendenti e ingegnosi invece che come mesti impiegati di una multinazionale.

Inutile aggiungere che con tutti i suoi miliardi, con la sua villa di 25 e passa stanze ornata di pipistrelli in ferro battuto sul cancello, con i suoi 400 milioni di libri vendute e le sceneggiature miliardarie, Stephen King si sente come uno di loro.