Si dice che ogni chicco di riso ospiti sette divinità. Sette infatti sono gli dei shinto della fortuna secondo la credenza popolare. Per questo la prima cosa che si impara in Giappone a tavola è usare i bastoncini con la precisione del becchettio di una gallina fino a raccogliere l’ultimo chicco bianco rimasto nella ciotola. Guai ad abbandonarne uno. Il riso è come il pane che non manca mai sulla tavola degli italiani, l’elemento chiave dell’alimentazione e la base dell’agricoltura nipponica con una produzione annua di riso di qualità Japonica (più corto rispetto all’Indica) di 8.603.000 tonnellate contro le 1.500.000 circa italiane.

È il colore del riso ad accogliere chiunque sbarchi all’aeroporto internazionale di Narita e ad accompagnarlo fino ai bordi della periferia di Tokyo. A seconda delle stagioni si gode del riverbero degli specchi d’acqua delle risaie ritagliate geometricamente, del verde brillante delle spighe appena nate o del giallo paglierino del riso maturo, fino a che la natura e la vita a essa strettamente legata – fatta di abitazioni col tetto ricurvo isolate al centro delle risaie, contadini chini coi piedi in ammollo e attrezzi di altri tempi, piccoli portali e santuarietti shinto dislocati qua e là come capitelli – non vengono rimpiazzate dal grigio di capannoni, palazzi e grattacieli che sempre più si allargano inghiottendo le aree agricole.

Sake e leggende

Eppure il riso ha rappresentato per secoli la moneta su cui si è fondata l’intera economia dell’arcipelago. Tantissime sono le silografie policrome del Mondo Fluttuante (note come immagini dell’ukiyoe) di artisti come Hokusai e Hiroshige che rappresentano la vitalità della borsa e del mercato del riso in epoca Edo. Il «masu», un contenitore cubico in legno di cipresso, è da sempre l’unità di misura base per pesare il cereale (le tre misure standard sono 18, 180 fino ai 1800 ml), utilizzata per calcolare le rendite dei feudi e in base a quelle far pagare loro i tributi allo shogun, il capo militare unico a cui tutti i samurai locali furono sottomessi fino al 1868, quando il Giappone si convertì a un governo di stampo occidentale. Oggi il «masu» è utilizzato soprattutto come elegante coppetta per sorseggiare il sake, la raffinata bevanda distillata dalle tante varietà di riso regionali, o come recipiente per le offerte rituali agli dei per ingraziarsi il raccolto, ma anche come portafortuna, perché il termine masu ha il significato di crescita, abbondanza e prosperità. Tanto per far capire l’importanza di questo alimento nella quotidianità, si pensi che tutti i termini relativi ai pasti comprendono la parola gohan, il riso bianco bollito servito in una ciotola che accompagna tutti gli altri cibi: asagohan è il «riso del mattino» e cioè la colazione, hirugohan è il «riso di mezzogiorno», cioè il pranzo, bangohan è il «riso della sera», la cena.

Ma il carattere che indica il riso come chicco vergine è invece kome. Ed è proprio da qui che prende il nome la mostra Kome. The art of Rice allestita presso il museo del noto stilista, designer e mente geniale di quest’epoca Issey Miyake, la 21_21 Design Sight (a cura di mostra a cura di Taku Satoh & Shinichi Takemura, visitabile fino al 15 giugno).

Progettata da Tadao Ando in forma di origami o «pezzo di stoffa» ripiegato a Roppongi Midtown, nel cuore nuovo di Tokyo, è conosciuta per i progetti sempre all’avanguardia, interdisciplinari e sperimentali nel campo del design a tutto tondo e come avamposto di un movimento che spinge per la creazione di un nuovo, il primo, museo nazionale dedicato al design nipponico.

La curatela questa volta è stata assegnata a uno dei direttori della galleria, nonché affermato graphic designer, Taku Satoh, che già si era dilettato con l’idea del riso nel 2009 per una delle più belle campagne pubblicitarie della linea Pleats Please di Miyake, posando i capi plissettati rossi, gialli, arancione, bianchi su polpettine di riso in modo da farli apparire sui poster come veri e propri bocconcini (nigiri) di sushi di tonno, uova di salmone, uovo avvolto con l’alga, seppia. Insieme a Satoh, l’antropologo Shinichi Takemura della Kyoto University of Art and Design impegnato su diversi fronti in progetti per la sensibilizzazione ambientale e la ricostruzione dopo il Grande Terremoto del 2011 e un team di una decina di artisti, fotografi, registi che hanno presentato e saputo trasformare in visioni ed esperienze tutte le potenzialità di un alimento tanto semplice e povero da assumersi il ruolo di sfamare una popolazione mondiale sempre più in crescita (nel 2050 si raggiungeranno i 9 miliardi), quanto ammantato di leggende, racconti, riti e credenze, come dimostra l’intero percorso espositivo. All’entrata un chicco di riso di dimensioni giganti (di Taku Satoh) si presenta: «My name is Rice». E chiunque vorrebbe rispondere: «lo so bene»

Ma le dimensioni ingigantite di ogni suo particolare altrimenti invisibile all’occhio fa subito cadere ogni sicurezza e si capisce che invece quel chicco non l’abbiamo mai guardato davvero. Né abbiamo mai pensato a quanti siano gli usi che si fanno del riso e dei suoi derivati a parte quello nutrizionale, in cui lo si trasforma in mochi (simili a gnocchi di riso), sake, senbei (cracker di riso): l’installazione curata da Yasuhiro Suzuki e Takehiro Ando mostra la tradizione shintoista dei shimekazari, grandi nodi fatti con corde di riso in svariate fogge, vere e proprie opere di design, utilizzati come simboli per sottolineare la sacralità del legame tra uomo e natura, tra uomo e divinità, tra uomo e donna allo stesso modo delle corde sacre shimenawa che vengono poste attorno a tronchi di alberi secolari, rocce o luoghi in cui si crede si insedi la divinità.

Le stesse fibre di riso similmente annodate però sono anche utilizzate per scopi più pratici, (come mostra la ricerca di Studio note) sfruttando le caratteristiche di resistenza e morbidezza insieme, per legare e mettere a essiccare il pesce, trasportare uova, fungere da nido per gli uccelli, da ciabatte e mantello da viaggio o da copertura per i tetti. Oggetti comuni, la cui bellezza ha già in sé il germe del packaging contemporaneo ma anche secoli di cultura legata all’essenzialità, alla frugalità, all’impermanenza.

Il percorso espositivo accompagna attraverso fotografie, oggetti, simulazioni digitali e dati, dai campi alla tavola, restituendo alla fatica, al lavoro e agli utensili umili legati alla coltivazione, alla lavorazione e alla preparazione del riso, fino alla sua presentazione nella ciotola, dignità e valore, bellezza e tempo.

In mostra si annusa l’odore del riso, delle fibre, della carta degli involucri che contengono il riso, del legno di cipresso dei contenitori; si tocca il senso della vita; si torna a quel bellissimo motto tema hima, già adottato come titolo per una precedente mostra nel 2012, che significa «infondere energie e fatiche e darsi il tempo che serve nelle cose», qualità senza la quale viene a mancare il legame ancestrale uomo-materia-natura.

Il chicco della vita

È una raffinatissima videoproiezione «Words of Rice» (Le parole del riso) curata da Imaginative inc. a restituire questo sentimento più di ogni altra opera facendo ondeggiare sulla parete sottili silhouettes di piante mosse dal vento che culminano in una spiga matura, fatta però di brevi frasi, scritte in sottili caratteri giapponesi, lasciate pendere naturalmente verso il basso. Sono le parole della «gente del riso», di chi di riso e con il riso vive ogni giorno, parole leggere visivamente ma che condensano e tramandano una saggezza di secoli – «l’agricoltura è un esperimento che può essere condotto una sola volta l’anno» -, l’esperienza – «voglio crescere delle buone piante di riso, non del buon riso», «coltivo il riso da me perché non mi piace mentire sulla mia cucina» -, la sacralità – «festività e cerimonie sono espedienti della memoria proprio come un album».

E con il senso della cerimonia si torna col pensiero a un’altra opera, quella della giovane Azusa Kawaji, che ha creato aiutandosi con uno spillo una serie di mini ciotole adatte a contenere non del riso, ma un singolo chicco. Un minuscolo granello su cui il pubblico è alla fine invitato a confrontarsi attraverso la scrittura di un proprio messaggio, scrutando da una lente, seguendo l’antica tradizione tramandata in ambito buddhista della trascrizione del Sutra del Cuore su un unico chicco.

Una sfida e una fascinazione che questo cereale dalla forma minuscola e irregolare sembra da sempre aver stimolato su saggi e folli, e non risparmiò neppure il grande maestro Hokusai, il vecchio pazzo per la pittura, che si racconta eseguì su un granello di riso in punta di pennello due passeri in volo, rivelatisi agli astanti solo sotto la lente di un microscopio.