Situazioni estreme, torture indicibili, un immaginario claustrofobico costellato di soprusi e degrado, un teatro di violenze che crocifigge in nome della religione o di conflitti etnici. Non invita certo alla pura contemplazione il percorso della mostra Inhuman (a cura di Giusy Caroppo, visitabile fino al 18 ottobre), che prende il via nei sotterranei del Castello di Barletta per riverberarsi nella storia inquieta del nostro presente. Del resto, non si può pensare a una incursione «comoda» quando a esporre ci sono tre artisti come Andres Serrano, Oleg Kulik e Kendell Geers. Il corpo, spesso vilipeso, violato, è il grande protagonista, una presenza disturbante. «Lavoro con materiali che interagiscono con la fisicità dello spettatore così come il contenuto dell’opera incita la loro immaginazione. Un oggetto/soggetto che abita nello spazio necessariamente lo rinegozia, rendendo consapevole del proprio corpo anche chi guarda. Niente è più scontato».

«Inhuman» (titolo della mostra) è una parola che ha una consonanza profonda con le sue opere. E vanta molti appigli anche con ciò che si sta delineando nel nostro presente, tra virus veicolati da salti di specie e movimenti anti-razzisti che infiammano tutto il mondo per rispondere, appunto, a trattamenti «inumani» … Cosa ne pensa?
La pandemia dovuta al Covid19 e il movimento Black Lives Matter non dovrebbero essere considerati come due fenomeni separati, ma piuttosto come il rovescio della stessa medaglia (economica). Il vero problema è che l’umanità ha perso del tutto il contatto con se stessa. Il mondo in cui viviamo e i nostri atteggiamenti culturali sono stati strappati dalle loro radici, hanno prodotto uno scollamento e ora vige un desiderio di gratificazione istantanea, anche pre-digerita. Tutto ciò che procura disagio, pone troppi interrogativi, fa vacillare l’idea comune di etica, destabilizza il potere, è sovversivo, è considerato socialmente fuorilegge, qualcosa da spingere ai margini del mercato (sempre economico). Di conseguenza, le ultime frontiere della ribellione trasmissibile attraverso l’arte o la cultura sono state ridotte a meri cliché e intrattenimento. Seguono la stessa logica strutturale del populismo, con il quale si possono riconoscere alcuni recenti movimenti politici.  Il capitalismo funziona solo se odiamo tutto di noi stessi, dai nostri capelli al colore della pelle, la nostra età, corpo, altezza, peso e odore. Spendiamo fortune nel tentativo di cancellare quel che ci definisce. Questo sradicamento identitario è un esorcismo dell’amore e incoraggia l’abuso di sé, il dubbio, l’insicurezza, la depressione, la disperazione e, in definitiva, il disprezzo di sé. Il risultato è che abbiamo così poco rispetto per il nostro corpo che faremmo qualsiasi cosa per distruggerlo. Come potremmo allora rispettare chiunque altro? Mi rende felice notare quante persone oggi stiano abbandonando le loro precedenti abitudini razziste, ma se non comprendiamo che quel pregiudizio è stato costruito nei rituali del disprezzo di sé, le soluzioni saranno solo effimere e di natura cosmetica.

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Stiamo assistendo, in diversi paesi, a una rivolta contro le «tracce» della storia coloniale. Ritiene che l’abbattimento delle statue, il desiderio di rimozione dei monumenti possa sfociare in una censura culturale?
Durante il periodo della influenza Spagnola, il poeta William Yeats compose una poesia intitolata Il secondo avvento: c’erano alcuni versi che avrebbero potuto essere stati scritti oggi. «Turbinando nella spirale che si allarga / Il falco non può udire il falconiere / Le cose crollano; il centro non può reggere / La pura anarchia dilaga nel mondo / La marea insanguinata s’innalza, dovunque / Il rito dell’innocenza è sommerso / I migliori hanno perso ogni convinzione, mentre i peggiori / Sono pieni di intensità appassionata».
La storia è narrata da coloro che hanno il potere di farlo e quindi parleranno sempre a proprio favore. Ma il potere subisce mutamenti e così le storie che si raccontano. Molti dittatori e tiranni hanno cercato di cancellare la memoria censurando l’arte, ma quest’ultima è, in definitiva, l’unica testimonianza di qualsiasi epoca. Dopo la brutalità del colonialismo e della schiavitù, credo sia sano contestare il modo in cui la storia è stata tramandata e procedere a una decolonizzazione dei suoi monumenti e segni.

Le sue installazioni site specific si concentrano, in forma scultorea, spesso sull’uso della forza, sulla prevaricazione…
Quando i nostri corpi sono infettati da un virus o una malattia, il corpo genera una febbre per avviarsi verso la guarigione. Quella febbre è spesso allucinatoria e quasi sempre crea un gran fastidio, ma non possiamo guarire senza quella violenza che fa salire la temperatura fino al nostro limite per determinare un cambiamento. Se l’arte è solo consolatoria non avrà alcuna capacità trasformativa. Il suo potere sta nella tempestività con cui pone molte più domande rispetto alle risposte che possono scaturire.

Lei è afrikaans, nato a Johnannsburg, in una famiglia della working class. Da giovane, ha militato nel movimento anti-apartheid tanto da dover lasciare il proprio paese (rientrando solo alla liberazione di Mandela). Qual è l’eredità di quel periodo confluita nella sua arte?
Ho capito i dispositivi del linguaggio e il loro funzionamento proprio all’interno del movimento anti-apartheid. Si può mettere in dubbio la legittimità di un potere esclusivamente entro i limiti di questo linguaggio. Non si può sfidare qualcosa se non si riesce a nominarla. Nella sua forma più complessa e contraddittoria, la facoltà di parlare non «per conto di» ma per se stessi è una solida base per la libertà e la liberazione. Il linguaggio ha rappresentato una formidabile protesta contro le cieche abitudini del mercato dell’arte, ma oggi è ridotto a una moda stagionale. Sovversivo quanto mettersi a guardare la vernice mentre si asciuga.

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Ci può spiegare qualcosa sul Manifesto che ha pubblicato qualche anno fa, una sorta di «guida» per orientarsi nella vita politica ed emotiva?
Ho redatto il mio Manifesto in un periodo angoscioso. Ero profondamente depresso, non mi piaceva come il sistema dell’arte strumentalizzasse le opere, distruggendone l’integrità. Avevo bisogno di un motivo per giustificare come mai io continuassi a ritenermi un artista. Così, ho deciso di sottolineare quel momento, mettendo per iscritto i miei pensieri, raccogliendo ciò che, nella mia opinione, rende l’arte importante.

«Inhuman» dice qualcosa anche sulla coabitazione di diverse specie su questa Terra, sul «vivere insieme»?
Naturalmente. Dobbiamo ancora imparare, come esseri umani, che non siamo gli unici ospiti del pianeta.

 

SCHEDA

Riparte il 18 luglio, con la mostra «Inhuman» al Castello di Barletta, il «Circuito del contemporaneo», progetto con cui la Regione Puglia, in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese e la direzione artistica di Giusy Caroppo, si pone l’obiettivo di costituire stabilmente una rete d’eccellenza per la produzione e fruizione di arte contemporanea. La rassegna (visitabile fino al 18 ottobre), distribuita in tutti gli ambienti dei sotterranei del maniero, vuole sollecitare la riflessione sull’universalità del degrado umano, della violenza esercitata dal singolo o dal potere ai danni della dignità della persona e delle sue libertà, anche alla luce del lockdown imposto dalla pandemia e dalle proteste mondiali a tutela delle differenze etniche, sfiorando la sfera morale e antropologica. Il concetto è declinato attraverso interventi site specific e opere che appartengono ad alcune serie storiche di tre artisti internazionali: Kendell Geers (Johannesburg,1960, vive e lavora a Bruxelles), Oleg Kulik (Kiev, 1961) e Andres Serrano (New York City, 1950).