Una pagina nera su Instagram su cui scorre una scritta di dolore in bianco: «Siamo ancora sotto shock, preghiamo per le vittime, i dispersi, i feriti. Il museo ha subito danni ingenti, ma il nostro staff è salvo». Poi, seguono i post con le foto del disastro: porte divelte, vetri a terra ovunque, pannelli saltati, danni all’edificio e alle opere. Si presenta così il Sursock Museum di Beirut – situato in una elegante villa del XIX secolo sulla collina di Achrafieh – che ospita un’importante collezione di arte libanese e araba dal tardo Ottocento fino al Duemila. Aperto nel 1961 dall’aristocratico Nicolas Sursock è una istituzione no-profit, con ingresso libero. Solo cinque anni fa era stato al centro di un complicato e costoso restauro e ora tutti gli sforzi sono stati vanificati dalla catastrofe che si è abbattuta sulla città. La direttrice Zeina Arida, di fronte alle macerie, ricorda la guerra civile ma al The Art Newspaper ha dichiarato che «la devastazione attuale è assai più imponente» e che, dopo le risorse spese per la ristrutturazione, non ci sono i soldi per acquistare nuovi materiali. «Non possiamo permetterci di ricomprare i vetri per i lucernai, le porte, le finestre». La crisi economica morde il Libano da tempo e la pandemia aveva già messo in ginocchio la vivace scena culturale del paese che proprio intorno alla zona del porto, oggi spazzata via, concentra le sue migliori e conosciute gallerie.

Sui social, le voci e le richieste di notizie di parenti, amici e colleghi si intrecciano. «Are you safe?». L’artista, fotografo, filmmaker e curatore Akram Zaatari lo è, safe. Lo scrive per rassicurare tutti, ma la sua casa è stata pesantemente investita dall’onda d’urto. Zaatari posta le immagini di stanze sfigurate e in molti offrono sostegno, anche economico. Lui, nel bellissimo video Letter to a Refusing Pilot (2013), presentato al padiglione libanese della Biennale di Venezia aveva portato la storia di un pilota israeliano che, durante il conflitto, si era rifiutato di sganciare una bomba su una scuola e poi aveva ripercorso il tempo della sua adolescenza, scavando tra i ricordi in frammenti. «Ho spesso evocato momenti in cui la piccola storia ha incontrato quella con la S maiuscola, recuperando vicende insignificanti – aveva detto in una sua intervista al manifesto – Il mio lavoro non può che essere radicato nei miei luoghi di origine. Sono cresciuto in Libano e, quindi, lo racconto: non potrei pretendere di continuare ad affrontare questioni connesse alla storia libanese se non fossi rimasto a vivere qui».

Sfeir Semler gallery
«I nostri cuori traboccano di dolore e siamo in lutto per Beirut. Grazie a tutti coloro che ci hanno penasti, mandato un segno, un messaggio. Abbiamo danni materiali, ma il nostro team è salvo». Si legge così nel messaggio della galleria Sfeir Semler, con sede a Beirut e Amburgo, vetrina internazionale per l’arte mediorientale (che rappresenta, tra gli altri, autori come Etel Adnan, Yto Barrada, The Atlas Group / Walid Raad, Lawrence Abu Hamdan, Wael Shawky). Al suo post, fa eco quello della Marfa’ Projects, galleria nata nel 2015 al porto, in due garage vicini alla dogana, con la mission di far conoscere la scena emergente. «L’esplosione devastante ha provocato danni ingenti. Marfa’ continua il suo lavoro nonostante tutto. I nostri cuori e le nostre preghiere sono con coloro che hanno perso i propri cari, le loro case».

Anche Ashkal Alwan, l’istituzione culturale guidata dalla curatrice Christine Tohmé, centro di riferimento fondamentale per gli artisti libanesi e non, di base nella capitale, ha subito diversi crolli. E secondo alcune fonti, fra le vittime dell’esplosione ci sarebbe anche l’architetto Jean Marc Bonfils, che ha ridisegnato lo skyline dell’East Village di Beirut.