Ha il ritmo di una pièce teatrale, l’andamento da studio del fattore umano, ma soprattutto è un grande contenitore di storie possibili o improbabili, impreviste, assurde e terribilmente reali.Preface/Prefazione (fino al 19 gennaio 2015) è la prima mostra in un’istituzione pubblica italiana dedicata a Walid Raad (Chbanieh 1967, vive e lavora tra Beirut e New York), artista noto a livello internazionale, a cui nel 2015 verrà dedicata un’importante monografica al MoMa di New York. Ospitata su due piani del Madre – Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina e realizzata in collaborazione con il Carré d’Art-Musée d’art contemporain di Nîmes, l’esposizione è frutto di un anno di lavoro (ma molti di più di conoscenza) da parte dei curatori Alessandro Rabottini e Andrea Viliani.
In questo percorso accidentale è facile inciampare ad occhi aperti, come dichiara il titolo stesso della sezione a piano terra Scratching on Things I Could Disavow (ovvero appunti su cose che potrei ritrattare). Raad investiga le dinamiche legate all’affermazione dell’arte moderna e contemporanea nel contesto arabo: dove c’era sabbia e petrolio s’investe oggi in arte e cultura, come vediamo a Abu Dhabi con il Louvre, il Guggenheim e il Ferrari World.
La natura ambigua, il terreno sfuggente su cui ci si muove in questo lavoro che parte dalla museologia è dichiarato dalla presenza di «appunti» (il muro fluttuante che non poggia sul suolo), gli oggetti definiti dall’intersezione delle loro ombre più che dalla loro materialità di reperti, le apparenti didascalie che non spiegano ma teorizzano. Una declinazione della «grammatica espositiva museale» (teche, cornici, pannelli) – come afferma Rabottini – in cui la vocazione all’affabulazione si esprime «sottopelle», «arriva per via telepatica», s’insinua nello spettatore con tutto il suo carattere di «schizofrenia voluta».
L’approccio è apparentemente molto più «ordinato» nell’altra sezione espositiva, dedicata al complesso progetto The Atlas Group (1989-2004) che ci proietta nella dimensione politica, sociale, psicologica ed estetica delle guerre civili in Libano. Stavolta il percorso segue la regola fondamentale dell’archivio, la «ratio»: ordine, classificazione, metodologia. Gli scenari di guerra, sempre drammaticamente di grande attualità, vengono inquadrati in questa visione schematica in cui, ancora una volta, è assicurato il cortocircuito visivo e mentale. Questa grande mappatura stimola riflessioni cruciali, come quello sulla distruzione che non è solo materiale, ma coinvolge beni immateriali come la memoria. Il trauma della guerra, infatti, innesca meccanismi di autodifesa – quindi di rimozione – che portano ad una riscrittura della storia stessa, che deve fare i conti con l’affidabilità della memoria all’interno di questo processo.
Nel porsi domande sulla percezione del trauma e del post-trauma è chiamata in causa soprattutto la fotografia come mezzo di trascrizione visiva del documento: realtà, verosimiglianza, illusione o finzione? C’è tutto questo nel lavoro fotografico dell’artista libanese. L’errore voluto, la sfocatura, il graffio, la manipolazione, l’utilizzo di immagini altrui entrano nella storia, la descrivono e la sovvertono, anche quando c’è un accenno alla leggerezza – sia pur cromatica – come nella serie Color code.
In questo lavoro, la guerra è analizzata attraverso le immagini in bianco e nero di architetture e paesaggi di Beirut, accompagnate da schizzi e appunti. L’autore (attribuendo la paternità delle immagini a un personaggio di nome Asma Taffan) ricorre metaforicamente al linguaggio della distruzione utilizzando dei pallini colorati molto seducenti. Sapere, però, che questi coincidono con i fori di proiettili e altri esplosivi non è affatto rasserenante, tanto più quando ci si rende conto che ogni colore è associato al paese di produzione delle armi: Belgio, Cina, Egitto, Finlandia, Grecia, Iraq, Israele, Italia, Libia, Nato, Romania, Arabia Saudita, Svizzera, Usa, Regno Unito e Venezuela. Anche la tecnica è depistante: sembra un collage, ma l’immagine bidimensionale è il risultato di una stratificazione di passaggi. Un’altra metafora in questa griglia fatta di buchi ed errori che è un invito alla presa di coscienza.

«Scratching on Things I Could Disavow» è il suo progetto più recente. Qual è la chiave che ha usato per parlare di arte contemporanea nel mondo arabo?

Ci sono molte «chiavi» per entrare in questo progetto, ne elenco un paio. C’è l’accelerazione nella costruzione di nuove infrastrutture per le arti visive nel mondo arabo, in particolare nel golfo arabico/persico, tra gli altri Emirati Arabi, Qatar, Arabia Saudita. Queste infrastrutture includono non solo musei, gallerie, università, ma anche fondazioni, storie, collezioni, premi, residenze, riviste, assicurazioni, gestori, restauratori, corniciai, guardie, e così via.
Per la seconda chiave, cito lo scrittore e artista Jalal Toufic che ha postulato il concetto in The Withdrawal of Tradition Past a Surpassing Disaster (Forthcoming Books, 2009, ndr.). Con questo concetto, ha sostenuto che «certi disastri vanno oltre», oltrepassano i limiti, influenzano la tradizione in modo più insidioso. Tali catastrofi colpiscono le opere d’arte non materialmente, ma immaterialmente. In altre parole, in un «surpassing disaster», le opere d’arte o le istituzioni non sono azzerate, ma vengono trattate da alcuni artisti, scrittori e altri come se fossero state demolite. Ciò crea una situazione insolita e strana, in cui gli artisti si ritrovano a dover far «risorgere» la tradizione che non è devastata fisicamente, ma che a loro sembra tale. Le opere che ho prodotto con il mio progetto sono affini a questo concetto di Jalal.

Il Libano, che ha lasciato nel 1983 per il trasferimento negli Stati Uniti dove ha studiato fotografia e arti visive al Rochester Institute of Technology e alla University of Rochester, è al centro di tutto il suo lavoro. L’approccio concettuale sembra tenere sotto controllo l’aspetto emotivo. Una distanza che permette di riflettere con maggior libertà sulle dinamiche della storia e delle guerre nel suo paese?

Sono d’accordo sul modo in cui ha formulato la domanda riferendosi ai lavori di The Atlas Group (1989-2004), quando dice che «sembrano tenere sotto controllo» gli aspetti emotivi del mio legame con il Libano. L’uso della parola «sembra» è abbastanza appropriato in questo contesto: le opere «danno l’impressione» e sono «incapaci di» tenere in scacco gli aspetti emotivi. Questo «fallimento» è evidente anche a me: molte opere documentano attività che si ripetono, esaustive e apparentemente senza fine (alcuni personaggi immaginati in questo progetto vogliono contare ogni autobomba, o documentare ogni tramonto). Inoltre, molte delle storie che combinano immagini evidenziano immediatamente gli aspetti emozionali all’interno della narrativa stessa. Tuttavia, non sono convinto che la distanza in questione sia la mia distanza dal Libano – vivendo negli Stati Uniti – né la mia nel tempo: vale a dire trent’anni dopo. La distanza può appartenere all’evento stesso. Alcuni eventi di estrema violenza possono essere vissuti e non vissuti.
Questa differenza riesce a spiegare l’effetto di «allontanamento» che viene rilevata nei miei lavori.

Fotografia, video, scrittura, collage, installazione e performance. In particolare la fotografia viene investita di responsabilità nella complessa operazione di documentazione e riscrittura della storia. Nel 1978 lei era un bambino quando, dopo un pesante combattimento, ha accompagnato suo padre a fotografare in giro per Beirut. È stato allora che ha capito potenzialità e limiti di questo mezzo?

Nel 1978, all’età di 11 anni, stavo «agendo» come un fotoreporter, sperando di «avvicinarmi» agli «eventi». Non sono sicuro di quello che, poi, ho capito da quell’«avvicinamento». Alla fine, ho famigliarizzato con le «complicate mediazioni con cui i fatti acquistano la loro immediatezza» e con i vari parametri formali, tecnici, storici, sociali e concettuali che creano la fotografia: ho cominciato a prendere seriamente nozioni come «l’avvicinarsi» e «l’evento», sono stato in grado di sperimentare le possibilità e i limiti della fotografia come tecnica, forme, storia e discorso.
In The Atlas Group (1989-2004), la fotografia è un elemento tra gli altri. Creo una narrazione che coinvolge altri dispositivi di visualizzazione come pareti bianche, testo in vinile, cornice, etc., ma fondamentalmente rimango connesso agli strumenti fotografici: tecnici, formali, storici e concettuali. Ad esempio, quando uso la logica del «troppo presto» o «troppo tardi» in opere come il Fakhouri Notebook Volume 72 sto anche facendo appello al tempo fotografico e alla tendenza a «stilizzare la vita in silenzio», come manifesto nella fotografia.

Nel suo lavoro nulla appare affidato al caso. Segue una determinata metodologia nel passaggio dall’idea alla realizzazione dell’opera?

Non sono sicuro di come rispondere a questa domanda, perché non mi è chiaro a quale concetto di «caso» si stia riferendo. Nel senso comune – un verificarsi di eventi in assenza di un disegno voluto – certamente non mi appartiene. Anche se molto è lasciato al caso nel mio lavoro, almeno durante la sua realizzazione.
La maggior parte dei documenti che finiscono nelle mie mani arrivano per pura fatalità; non stavo certo cercando fotografie di autobombe o di corse di cavalli. Raramente procedo da una situazione o da un oggetto ben definito. Ma questi incontri fortuiti fanno scattare un ulteriore lavoro di ricerca e di studio, che tende anche a portare altre sorprese, incidenti e incontri. Nel progetto Scratching potrei pure dire che, in effetti, «niente / nessuna cosa è lasciata al caso».

Atlas Group-I might die before I get a rifle_Device II
DSC_0018 - mostra di WALID RAAD al MADRE - Napoli 10-10-2014 (foto Manuela De Leonardis)
DSC_0036 - mostra di WALID RAAD al MADRE - Napoli 10-10-2014 (foto Manuela De Leonardis)
Scratching on things-Preface to the third edition