Camminare in città conviene, poche centinaia di metri o alcuni chilometri, a seconda delle esigenze. Necessita restituire il corpo alla città, negli anni sbalzato dai marciapiedi e sempre più inscatolato nei mezzi di trasporto pubblici e privati, dove il corpo compresso spesso dà segni di disagio e a volte scoppia, arrivando perfino alle mani con altri corpi. Camminare in città avrebbe un significato di benessere fisico individuale e collettivo, il cui effetto indiretto sarebbe anche quello di pacificare gli animi. Quando camminiamo osserviamo i volti, le persone, e in qualche occasione si abbozza anche a un sorriso. Quando gli incontri nel quartiere dove si vive o lungo il percorso che si fa da casa alla fermata dell’autobus, per andare al lavoro, diventano più frequenti si stabiliscono convenevoli o sottili relazioni tra corpi che si incrociano e accennano a un leggero sorriso.

Restituire il corpo alla città, significa avviare politiche sulla camminabilità della città, significa consentire a tutti, dai bambini di otto anni agli anziani ultraottantenni, di scegliere se e quando fare piccoli o medi percorsi a piedi, significa restituire la polis al corpo. Ma come si fa a rendere camminabile una città?
Giulio Bizzaglia, insegnante di educazione fisica e docente di sociologia dello sport presso l’università di Tor Vergata di Roma, ha scritto un libro La città che cammina. Per una sociologia del corpo metropolitano (17 euro, Franco Angeli), un testo che ogni assessore all’Urbanistica di grandi e medie città dovrebbe tenere a portata di mano e consultarlo come prontuario, ma anche gli assessori allo sport, molti dei quali negli ultimi anni hanno cambiato denominazione e preferito al novecentesco sport un più attuale «Benessere del cittadino» (vedi tra tutte Roma e Milano).

La lettura del libro farebbe bene anche allo spirito di quei cittadini italiani, circa il 40% della popolazione, poco incline a esercitare qualsiasi forma di movimento, perché camminare, poco o molto, potrebbe diventare una pratica motoria quotidiana. Scrive l’autore: «È possibile coinvolgere nel cammino una parte consistente di cittadini, altrimenti inattivi, offrendo loro la possibilità di scegliere per questa via una stile di vita attivo/di movimento. In particolare si ipotizza che tale coinvolgimento possa avvenire mediante la proposizione del cammino come pratica non stressante, capace quindi di attrarre chi non vede con favore le pratiche sportive consolidate, perché ritenute restrittive nel loro svolgersi secondo lo schema classico che prevede lo sport praticato in un luogo dedicato, in un tempo dato, secondo un modo canonizzato».

Restituire i corpi alla città, significa che le istituzioni preposte devono favorire politiche di facilitazione non solo all’accesso degli impianti sportivi tradizionali, ma come sostiene Marc Augé, pensare a una diversa costituzione materiale, urbanistica, intervenire nei luoghi e negli spazi, perché una città che cammina, presta attenzione ai corpi che la percorrono. Giulio Bizzaglia ha il pregio di non assumere posizioni radicali e proporre soluzioni estreme, come quelle che prevedono spazi chiusi alle auto ovunque, e storce il naso quando gli si chiede se la soluzione possibile sarebbero le isole pedonali, verso le quali simpatizza, ma le considera degli spazi con i paletti, non possono essere risolutive e muovere i corpi di centinaia di migliaia di persone.

Sostiene in La città che cammina che bisogna offrire a chiunque la possibilità di muovere il proprio corpo, come e quando vuole, perché tutti i corpi sono idonei all’attività fisica, perciò le isole pedonali, diventano isole felici, dove il corpo per breve tratti viene relegato in uno spazio percorribile. Ma il resto della città? Si tratta di ripensare gli spazi pubblici per far uscire il corpo dalle mura domestiche, per quanto riguarda gli anziani, che restano chiusi in casa perché vivono soli, una solitudine che incide sul loro stato umorale e psichico, il cui riflesso è la tendenza ad ammalarsi più facilmente, gravando sul sistema sanitario nazionale. Se la seconda metà del Novecento ha rappresentato l’occupazione della strada da parte dell’auto, inscatolando i nostri corpi, il decennio del nuovo secolo sembra avviato verso la realizzazione di nuove politiche che allentino la compressione del corpo, piste ciclabili, bike sharing, taxi collettivi, car pooling. Accanto a queste scelte c’è il cammino in città, ma politicamente significa cambiare rotta, ribaltare i vecchi schemi, che rispondono a più strade per le auto, più parcheggi, significa fare scelte di alto profilo politico, che l’autore ritiene non alla portata di tutti gli amministratori locali.

Oggi diventa paradossale, individuare il cammino in chiave post moderna e sollecitare politiche di incentivazione, visto che camminare è una delle attività ancestrali dell’essere umano e una delle più naturali. Una città camminabile, che rivoluziona gli spazi, sarà realizzabile o siamo nel campo dell’utopia? La risposta la dà lo scrittore Edoardo Galeano nella sua opera Le parole in cammino: «Lei è all’orizzonte… Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino di dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare». Uno stimolo per cominciare a mettere due passi sotto casa.