Un pensiero antico: «L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante».

Non poteva che essere la massima del filosofo del XVII secolo Blaise Pascal a fare da guida all’universo artistico-naturalistico di Franco Zaccagnino, 66 anni, praticamente l’unico esponente di un uso del tutto esclusivo ed originale di questo prodotto della natura che, nella lingua latina, prende il nome di arundo e si trova in abbondanza lungo i terreni, acquosi e non, del territorio di questa parte del Nord della Lucania dominata dal monte Vulture.

E il «Museo dell’Arte Arundiana» ne è il suo gioiello nascosto. Bisogna fare molti tornanti e salire fino a 900 metri per assaporare non solo la visione della natura ma anche la sua trasformazione in arte e invenzione fantastica.

Lasciata l’area industriale, uno dei sogni (infranti) del post-terremoto 1980, ci si inerpica per alcuni chilometri fino a Sant’Ilario, borgo di 70 abitanti, nel comprensorio del Comune di Atella. La chiesa in pietra, la piazzetta, qualche casa, una pro loco piccola ma ricca di foto interessanti, un bar che vende un po’ di tutto ma è aperto solo per alcune ore, e finalmente il bellissimo ingresso del Museo che non è sede unica ma ha altre dependance da visitare col segreto desiderio di vivacizzare l’intero borgo in questa direzione.

Naturalmente l’uomo che ha inventato tutto questo mi aspetta all’ingresso. Si viene per appuntamento (telefono: 339-4103998) perché è una struttura privata che non riceve fondi pubblici. E’ la miseria dell’Italia che lascia abbandonati i suoi tesori o guarda, ammirata ma ipocrita, senza muovere un dito. Zaccagnino cerca di creare un’atmosfera di suspense nella scoperta dei suoi lavori che non guasta e fa parte del piacere della visita stessa. Si parte da lontano: dalle origini del Borgo su cui ha indagato e scritto, segno dell’amore per questo luogo che l’ha visto nascere e crescere da bambino, fino ad arrivare alla storia del Museo, al futuro del Borgo con, tra l’altro, l’idea del progetto (altra vera chicca) della trasformazione del bosco sottostante in un’area densa di cultura e mistero.

E sarà il compimento della sua passione per l’arte della canna, nata nel tempo dell’infanzia, proseguita come artigianato nell’adolescenza e poi esplosa nelle invenzioni che attraversano l’informale, il figurativo, le scoperte delle avanguardie storiche. E ancora le opere che dialogano a «tu per tu», dentro teatrini che sembrano sbucare dal mistero più arcaico, con i grandi classici del passato, da Michelangelo a Leonardo. Sfide povere e autentiche con la Pietà e Monna Lisa dove non c’è nessun complesso di inferiorità o sacralità verso l’arte cosiddetta alta.

Quando entriamo nel Museo, colpisce innanzitutto la cura estrema dei dettagli. Poi inizia la visita di questo scrigno di lavori e tesori che vanno dalle composizioni con i pezzi minuscoli della canna all’uso di quelli più grandi della pianta con le stupefacenti radici. «All’inizio della gioventù, quando la passione per questo manufatto che la natura ci ha dato mi aveva già catturato da tempo – racconta Zaccagnino – ho intrapreso un cammino che mi ha trasformato profondamente. Mi sono lasciato trascinare dalla vitalità della canna e ho cominciato a farmi contaminare da tutto a partire dai miei viaggi dove ho voluto intrecciare anche la storia dei grandi monumenti delle città con l’uso della canna. Ma non è stato mai un calco della materia povera su quella, diciamo così, ricca. No, il contrario: è stato un dialogo in cui la canna si è alzata in piedi e ha parlato alla pari con i grandi materiali. E naturalmente ha cambiato la mia vita perché la protagonista assoluta della mia storia è diventata lei, la canna, di cui ho scoperto le infinite variazioni e i magnifici usi».

Poi è venuto il sogno e il mito per l’insegnante-artista Franco. E così è nata Siringa, la ninfa dei boschi che si ribella al dominatore dio Pan, che sfugge alle sue insidie, che viene trasformata in canna per liberarla da quel padrone. Sono opere significative dove Siringa prende vita, quella che non ha mai potuto vivere, grazie all’artista che trasforma quella donna-canna in ispirazione, audacia e potere. E trasformando quel mito anche in racconto-spettacolo che si ripete ogni estate con una festa che sta diventando quanto mai evocativa.

Quando scendo dal Borgo e attraverso l’area industriale di Atella penso, a 39 anni dal sisma che ha cambiato il volto di questa e altre terre vicine, alle cose che potevano essere e non sono state, a un modello di sviluppo più fondato sulle gambe delle persone che vivono i territori, all’immensa potenzialità del territorio del Vulture che è un grande agglomerato europeo. E alla speranza che può venire anche da minuscoli borghi non arresi.