Calpestare cartoni di banane di marche universalmente note, messi a terra a coprire l’intera superficie di una stanza al primo piano dello Château de Penthes, Pregny-Ginevra in occasione della mostra Here Africa/Ici l’Afrique è per Barthélémy Toguo (M’Balmayo, Camerun 1967, vive e lavora tra Parigi, New York e Bandjoun, Camerun) un atto politico. Un modo per porre l’attenzione su ingiustizie e sfruttamento – una moderna forma di schiavitù – subite dai lavoratori delle piantagioni.

A far eco, sulle pareti, la serie di acquarelli Judith facing Holophern (2010), in cui la testa umana si ripete, di profilo, vomitando dolore. Su due piccoli schermi, invece, scorrono le immagini che raccontano la nascita della Bandjoun Station Project (2008-2014), che coniuga arte e agricoltura. Un sogno diventato realtà.

Quali domande ti sei posto nel momento in cui hai deciso di studiare arte, trasferendoti prima a Abidjan dove hai frequentato l’Accademia di Belle Arti, poi dal 1993 a Grenoble e Düsseldorf?

Volevo essere un uomo – un artista – libero e lavorare per conto mio. Ma, dato che in Camerun non ci sono scuole di arte, sono andato a studiare in Costa d’Avorio. La mia famiglia non voleva assolutamente che facessi l’artista. Avrebbero voluto che diventassi medico, avvocato o anche funzionario pubblico.

Quali sono le maggiori sfide per un artista africano nel parlare della propria identità senza cadere negli stereotipi?

Penso che partire da problemi universali permetta di affrontare problematiche di oggi e del passato. Pur essendo un artista che afferma la propria africanità, nel mio lavoro non faccio altro che ispirarmi alla vita, alla sofferenza, alla violenza, alla sessualità, alla solitudine. Bianchi o neri, si soffre comunque. La guerra in Europa o in Africa è sempre guerra.

Segui una particolare metodologia quando lavori?

No, non seguo una particolare metodologia. Ogni scuola che ho frequentato mi ha dato un’impostazione diversa. Ad Abidjan era molto classica e accademica; a Grenoble ho lavorato con la performance, il video, la scrittura, la fotografia. A Düsseldorf, successivamente, era una visione molto più realistica. La mia metodologia è chiedermi come utilizzare al meglio un’idea. Se ho un’idea e penso che funzioni meglio con la scultura, allora realizzo una scultura. Lo stesso è per la performance, il disegno o altro. Qui, ad esempio, volevo porre l’attenzione sulle condizioni dei lavoratori delle piantagioni di banane, il cui prezzo di mercato è stabilito dall’occidente. Volevo farlo in modo critico, per questo ho messo i cartoni sul pavimento. Desideravo un gesto aggressivo (si calpestano) sul disegno stesso della banana.

Bandjoun Station che hai fondato in Camerun nel 2007 è un centro di scambi tra artisti locali e internazionali con uno spazio espositivo, una biblioteca e anche una piantagione…

Bandjoun Station è la constatazione di due fenomeni. Intanto, sia l’arte classica africana che quella contemporanea si trovano in occidente, perché i collezionisti occidentali la acquistano e la portano fuori dal nostro paese. Ho pensato, perciò, che bisognava creare un luogo affinché la produzione artistica contemporanea africana rimanesse nel continente. Ma anche per dare la possibilità agli amici artisti africani di avere un luogo dove mostrare il loro lavoro. Non volevo, però, che diventasse un ghetto, ecco perché ho pensato a un centro di scambi dove invitare gli artisti internazionali, i collezionisti e le gallerie occidentali. Così anche l’Africa avrebbe avuto il suo ruolo attivo. Bandjoun Station è un luogo dove si celebra l’arte. C’è anche una produzione agricola, perché per fare arte bisogna pur mangiare. Così ho acquistato dei terreni dove si coltivano mandioca, banane, mais e fagioli per la comunità e c’è anche un progetto critico sul caffè. Per realizzarlo, ho creato una piantagione di caffè che autoproduciamo e vendiamo come prodotto finito, utilizzando un imballaggio litografico, fissando da noi il nostro prezzo.

Il prezzo del caffè, infatti, non è mai stabilito dai produttori africani, ma dagli occidentali con quotazioni molto basse che hanno fatto impoverire gli agricoltori del sud, che ne soffrono e muoiono di povertà.

La natura è presente anche nel site-specific «The last supper» per DAK’ART 2014 nel Campus della Cheikh Anta Diop University. In che modo una piccola piantagione di fagioli rossi del Camerun su una superficie a forma di mappa dell’Africa diventa il punto di partenza per una riflessione su alimentazione e società?

Intorno a una carta geografica dell’Africa, disegnata sul suolo, seminata e coltivata con fagioli sono disposti 54 tabouret africani che rappresentano i paesi dell’Africa. È un invito ad un dialogo, una riflessione, sull’avvenire dell’agricoltura africana. Ma anche un gesto per parlare della qualità dei prodotti agricoli che sono alla base dell’alimentazione di oggi e che, a causa dei prodotti chimici usati sia in agricoltura che nell’allevamento, causano anche in Africa un aumento di cancro e di problemi di diabete. Con questo progetto, intendo promuovere un’agricoltura sana.

DSC_1821 - la stanza di Barthélémy Toguo - Ici l'Afrique (foto Manuela De Leonardis)