Che cosa c’è in un nome? Spesso, in nuce, c’è quasi tutto; non di rado è lui a fare da guida verso il desiderio. In un nome fermenta l’apertura, la possibilità dell’amore. Che passa a sua volta dall’atto del nominare e del sentirsi chiamati. È ricco di nomi, di ringraziamenti, di dediche non taciute l’ultimo libro di Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (Einaudi «Super ET Opera viva», pp. 160, euro 14). Non potrebbe essere altrimenti per il libro di una vocazione. Dire chiaramente il nome, esplicitarlo, significa anche riconoscere un debito. E nasce da qui una delle linee di forza dell’opera in cui lo psicoanalista, spesso in dialogo con la filosofia dell’educazione e la pedagogia più illuminata (come quella di Riccardo Massa), prende di petto il problema della mutazione della scuola nel momento storico che vede l’evaporazione del padre e l’ascesa dell’acefalo godimento mortale.

Trascorsa l’epoca di Edipo (dominata dalla repressività della legge del Padre) e dopo il mutamento rappresentato dal post-Sessantotto, che ha invece portato sulla scena Narciso, ora siamo gettati in una nuova trasformazione a cui lo psicoanalista ha già da qualche tempo avvicinato l’immagine di Telemaco: il padre che sta svanendo si incarna in un’attesa, in un bisogno che spera di materializzare una nuova figura della Legge carente.
Si pensa subito al sarcasmo doloroso con cui il Pasolini «luterano», altro riferimento chiave per Recalcati, chiudeva la sua raccolta di interventi politici e pedagogici per via di una eloquente Postilla in versi («vogliamo la bacchetta, papà, la bacchetta!»). Non è più l’epoca della parola paterna che si impone con forza di legge di per se stessa, ma oggi ciascun insegnante deve ricreare ogni volta, dal silenzio, le condizioni di autorevolezza della propria parola: tramite l’invito al desiderio di sapere rappresentato dalla singolarità fisica della voce, pronta a farsi corpo. Perché un maestro, come lo Stoner protagonista del romanzo di John Williams, è prima di tutto un testimone del desiderio unito alla Legge. E dovrebbe presidiare un’ultima linea di resistenza capace di salvaguardare quell’atto culturale e costruttivo che in fondo è il differimento della soddisfazione della pulsione (ed ecco ancora una rifrazione dal Pasolini del trattatello pedagogico Gennariello, dove è chiaro che «è il possesso culturale del mondo che dà felicità»). Contro la frustrazione e il senso di inanità odierni, per Recalcati c’è sempre maggior bisogno di una scuola che, valorizzando il gesto di Socrate, sconfessi l’illusione di un sapere totale incarnato nella figura del maestro e anzi crei nello spazio fra insegnante e allievo quel vuoto che solo prelude alla nascita del desiderio e dell’identità, i quali a loro volta conducono all’opera che spetta a tutti: umanizzare la vita.

Recalcati non smette di insistere sulla necessità di riconoscere il debito: quello nei confronti dei maestri che non hanno inteso il sapere come una materia morta da trasmettere, o da ripetere nell’imitazione della parola dell’Altro, ma «tacendo l’amore» sono riusciti ad accompagnare gli allievi – senza la pretesa di «raddrizzare la vite storta» – per poi lasciarli andare, verso la loro futura identità. Il sapere è impossibilità, e un insegnamento che sia davvero tale dovrebbe «preservare quello che non si può trasmettere».
Di conseguenza, l’altro punto nodale del percorso è per Recalcati l’impossibilità di «farsi un nome» da se stessi, scavalcando la responsabilità dell’incontro-confronto con l’Altro che solo la scuola offre, e la necessità di riconoscere il debito con i maestri proprio nel momento in cui ci si distacca da loro trovando una propria voce personale. Come a dire che non ci si può inventare padri di se stessi.

Qui si riflette senz’altro il riattraversamento della parola di Joyce compiuto da Lacan nel Seminario XXIII; e in verità si desidererebbe leggere uno sviluppo della questione nel momento in cui Recalcati, forse con fretta eccessiva, riporta un’opera plurale e multivoca come Finnegans Wake alla sola idea che la vede generata dal balbettio monologante e fonetico de lalangue. Ma notevole è intanto l’uso di indicare la «Scuola» con l’iniziale maiuscola, come a marcare una nostalgia di dignità e stabilità.

L’altro aspetto che cambia a fondo il volto dell’Ora di lezione è il quinto capitolo, intitolato Un incontro: qui Recalcati rinuncia al tono pacatamente saggistico tenuto fino a quel momento e porta sulla pagina la propria esperienza autobiografica, nei giorni in cui si approssima al compimento dei cinquant’anni. Sono parole urgenti per motivazione intima, scritte da uno psicoanalista che si appassiona alle cause perse perché lo è stato anche lui, per anni. Un racconto autobiografico talmente pronunciato non può non colpire: come se lo stesso Recalcati volesse farsi testimone della propria vocazione, abbandonare alle correnti della scrittura le peripezie del desiderio che ha vissuto. Perché l’incontro, trasformato in omaggio commosso, è quello con una professoressa di lettere, Giulia, che gli ha cambiato la vita da adolescente.

Questo scarto netto dal saggio alla confessione emozionata è una mossa consapevole e certo arrischiata. Ed è per Recalcati un modo di esporsi e di parlare ancora al bambino difficile che lui stesso è stato: al flaubertiano idiot de la famille, al bambino che a forza di renitenze riesce a farsi bocciare e segnare a dito.

Non c’è dubbio che in ultima analisi si corra il rischio di naufragare nei pressi dell‘Attimo fuggente (ai cui deleteri effetti su più di una generazione di insegnanti e studenti Recalcati accenna in una nota a piè di pagina) e di far rientrare dalla porta quel «carisma» dell’insegnante che non a caso, probabilmente, gli sfugge di penna una volta; tornando così, tramite la metafora dell’«aprire mondi», all’idea della «passione» e della sapienza da «trasmettere», magari sull’onda delle parole dei grandi poeti. Ma quello di narrarsi è un rischio che l’autore ormai accetta in pieno, con tutte le sue conseguenze. Ripensando alle tante questioni che L’ora di lezione genera, è allora augurabile che gli insegnanti ritrovino «l’arte dell’inciampo» e la capacità di produrre ogni volta la propria autorevolezza, contro le secche in cui si è impantanata la scuola, vittima di un efficientismo vano e di un produttivismo concentrato su cifre e statistiche, nonché sulla vita intesa come una gara interminabile. Certo la buona volontà non basta, oggi più che mai: perché chissà per quanto tempo ancora rimarremo ad agitarci in mezzo al guado.