Ogni apparizione di Enzo Moscato è una discesa nel ventre del teatro. Basta un gesto misterioso delle mani mentre attraversa l’oscurità del palcoscenico per rinnovare l’incanto o la magia di una presenza capace di far coincidere corpo e parola. E dunque anche per questo bisogna essere grati a «Le vie dei festiva» che da 23 anni propone ostinatamente un’idea non banale della scena, con attenzione al nuovo ma non alle mode, spostando anche la propria progettualità anche nel sostegno produttivo a ciò che meno facilmente si acconcia al mercato.

 
Con Ritornanti Moscato ripropone tre testi scritti qualche decennio fa, che la distanza permette forse di attraversare con uno sguardo e un cuore diversi. Il titolo, che rende un dichiarato omaggio ad Anna Maria Ortese, si presta infatti a una duplice lettura. Ritornanti sono gli «spiritilli» che popolano gli anfratti del mondo magico napoletano, come il munaciello che spaventa i due giovani sposi del primo lavoro, ma lo sono anche questi testi che altre volte ci sono venuti incontro, che ci pare di conoscere tanto bene, eppure ogni volta è un rinnovato piacere, perché non è la sorpresa ciò che conta nell’esperienza teatrale – il finale è noto, no? Lo sperimentano anche le femmene ’e vita di Rondò (a leggerlo è Giuseppe Affinito) sempre ingannate dai dominatori di turno. Ma davvero straordinaria è soprattutto l’evocazione della trans Cartesiana in viaggio con due compagne da Napoli alla Spagna alla ricerca di una problematica identità sessuale da ricostruire, che si rispecchia nel babelico multilinguismo di cui fa travolgente uso, sempre in bilico fra la citazione colta e la comicità più spudorata.

 
L’arte dell’attore è in maniera evidente al centro del festival – o forse bisognerebbe parlare piuttosto del performer, vista l’ampiezza delle forme in cui il termine può essere coniugato, anche soltanto a voler prendere come termine di paragone un caposaldo del teatro qual è l’Amleto scespiriano.
Si spazia da Roberto Latini che in Die FortinbrasMaschine riscrive a suo modo la riscrittura che già ne diede Heiner Müller con Hamletmaschine, in un vorticoso gioco di citazioni che mescola una battuta di Eduardo a richiami al teatro kabuki o al«time to die» di Blade runner, per arrivare all’Amleto messo in concerto da Fabrizio Gifuni con le musiche di scena di Šostakovic, che chiude questa sera il festival all’Auditorium del Parco della musica.

 
Ecco ad esempio il coinvolgente reading di Rosario Lisma dai primi capitoli di Terra matta, il memoriale con cui Vincenzo Rabito, bracciante analfabeta, ripercorre con una sorprendente lingua d’invenzione la sua avventurosa vita, che è poi una storia sociale del nostro paese dagli inizi del secolo scorso al boom economico. Qui, fra una canzone e un brano di chitarra, l’attore muove dagli anni dell’affamata giovinezza siciliana per arrivare a quelli della prima guerra mondiale, conclusi da una tragicomica medaglia al valor militare sul Piave mormorante; e alla fine di questa epopea quelle che un tempo si chiamavano classi subalternevien quasi spontaneo augurarsi che l’impresa si prolunghi.

 
Che se mangiò la zita è invece una trascinante performance dell’orchestra di Ambrogio Sparagna che attraversa i canti (spesso accompagnati dagli spettatori) di una tradizione popolare, quella del pranzo nuziale, che sembra non avere confini geografici.
Ricordata la vocalità  da fadista di Eleonora Bordonaro, che si cimenta in tante lingue minori, vero protagonista della serata è lo «chef errante» catanese Carmelo Chiaramonte, impegnato a preparare a vista uno scenografico couscous spaziando fra attrezzi di cucina e padelle fumanti. Circondato da microfoni che amplificano ognio rumore, dal ritmo del coltellino che trita le verdure al basso ostinato della grattugia, è tutto un vorticare rituale delle mani che tagliano pestano mescolano fanno scendere dall’alto un filo d’olio o un bicchiere di vino. Assai divertente, e poi il couscous era buonissimo.