Lo scirocco ha spazzato con violenza le vie di Palermo per tutta la notte. È una mattina di dicembre ma il clima è mite e il sole illumina di giallo ocra le mura borboniche dell’Ucciardone. Il cancello esterno del carcere si apre, entriamo, passiamo i controlli e ci incamminiamo verso la quinta sezione. Attraversiamo il viale interno in silenzio, costeggiando i ficus secolari che rendono l’atmosfera surreale, gli alberi monumentali sembrerebbero gli unici abitanti del luogo. Ci accompagnano Elisa Fulco (Associazione Acrobazie) e Antonio Leone (ruber.contemporanea), ideatori e curatori del progetto «L’arte della libertà». Entriamo nella sezione e raggiungiamo una ampia stanza all’ultimo piano dove, da un anno, 15 detenuti hanno intrapreso un viaggio alla scoperta dell’arte contemporanea. «È un percorso che ha previsto diversi passaggi – mi spiegano i curatori – il primo è stato quello di creare un gruppo di lavoro, composto da circa 30 persone, sufficientemente omogeneo. Abbiamo messo insieme detenuti, operatori penitenziari, inclusa la polizia penitenziaria, e operatori sociosanitari e culturali che provengono dai partner del progetto: Fondazione Sicilia e Fondazione con il Sud, che sostengono il programma, Galleria d’Arte Moderna e Azienda sanitaria provinciale di Palermo. La questione che ci siamo posti è se l’arte e la creatività possono avere un ruolo centrale nei processi di cambiamento. Siamo convinti che proprio attraverso l’arte e la sua orizzontalità si offra l’occasione per sviluppare la creatività in maniera paritaria. Durante gli incontri si crea una sorta di sospensione dei ruoli che ci permette di lavorare sul senso di comunità. Non si tratta di arte terapia ma di porre l’attenzione su ciò che abbiamo in comune e quindi anche gli strumenti tecnici utilizzati devono permettere ad ognuno di sentirsi alla pari. L’obiettivo del progetto è quello di portare l’arte contemporanea all’interno del carcere Ucciardone. Con la guida dell’artista Loredana Longo, che sta seguendo i workshop, arriveremo a fine febbraio con una mostra, dal titolo Quello che rimane, che presenteremo il 28 a Palazzo Branciforte e che sarà il risultato di un lavoro di gruppo».

Dentro e fuori
Siamo in anticipo e la stanza è ancora vuota, la luce filtra dai finestroni in alto proiettando sulla parete opposta i contorni delle sbarre. Sulle mensole sono appoggiati alcuni dipinti realizzati dai detenuti. «In questi mesi si sono sviluppati dei laboratori settimanali – prosegue Fulco – con artisti ed esperti che hanno raccontato la storia dell’arte, ascoltando il contesto e preparando delle lezioni calibrate per il gruppo. La cultura deve essere accessibile anche ai detenuti e per questo sono state organizzate delle visite guidate di gruppo all’esterno, nei musei e nelle istituzioni cittadine. Tutto ciò ha permesso di sviluppare una relazione tra dentro e fuori. Questo è un aspetto fondamentale per cui riteniamo che la rete degli stakeholder vada sempre di più ampliata, mettendo a sistema tutte le potenzialità positive e dimostrando come la formazione artistica abbia un valore di coesione sociale e di riabilitazione. Programmi di questo tipo non vanno mai costruiti pensando che gli unici destinatari siano i detenuti ma è il gruppo nella sua interezza che porta ricchezza e crescita al progetto».

Dal corridoio arrivano le prime voci, accento siciliano. Il clima è informale. Caffè, sigaretta, foglio delle firme, ci si aggiorna su quanto accaduto in settimana. Si uniscono i tavoli, tutti sono seduti intorno e possono guardarsi negli occhi. Arrivano anche gli operatori della polizia penitenziaria, vestiti in borghese; se non fosse per le pesanti chiavi che portano con loro si confonderebbero con il resto del gruppo. Persone che, per le asimmetrie del luogo, tendono a non incontrarsi mai sullo stesso piano, si ritrovano insieme a parlare di arte e di libertà. Il lavoro di creazione artistica, coordinato da Longo, oggi verterà sulla concezione del tempo. Prima di iniziare il laboratorio pratico, si discute a lungo su come il tempo trascorra in carcere, sui modi per tenere, o non tenere, il conto dei giorni e per fare in modo che le ore scorrano più velocemente.

C’è un’atmosfera da ultimi giorni di scuola, si scherza ma si respira la malinconica consapevolezza che sarà l’ultimo workshop dell’anno. Su lunghe strisce di stoffa ognuno disegna il proprio modo di scandire lo scorrere del proprio tempo: lunedì, martedì, mercoledì… finita bombola del gas, colloqui, spesa, permessi, croci, linee, disegni…

Presa un po’ di confidenza con l’ambiente, i ragazzi reclusi iniziano a raccontarmi del progetto, qualcuno decide anche di farsi intervistare davanti ad una telecamera dopo aver rotto il ghiaccio. Guido mi spiega che: «questo è un progetto diverso ed unico, non avevo mai assistito agli eventi che sono accaduti durante questo corso. Non c’è discriminazione fra il detenuto e gli altri, non l’avevo mai vissuto. Riusciamo poi a stare bene con noi stessi e tra di noi, c’è un’aria di serenità, uno arrivando qui si sente ‘tutta una persona’ (sorride ndr)».

Secondo Filippo: «Il semplice fatto di essere a contatto con gli educatori, con la polizia penitenziaria, con gli assistenti, a volte è capitato anche con qualche magistrato, ti permette di oltrepassare una frontiera; qui c’è un rapporto più umano. Non c’entra niente con quello che c’è fuori, con gli operatori o gli assistenti in divisa, lì trovi un muro. Anche il fatto di mangiare insieme è importante, non ti potresti mai permettere di mangiare con un assistente in una sezione o all’esterno perché c’è sempre quel distacco. Questo muro è stato superato dal coinvolgimento tra tutti noi, si è formato un gruppo, una famiglia, non c’è il detenuto e l’operatore, siamo tutti uguali, almeno qui dentro».

Visione diversa
Alexander inizialmente aveva dei pregiudizi sul progetto ma oggi conferma l’impressione dei suoi compagni: «In questo gruppo non ci sono limiti imposti dai ruoli, ognuno si può esprimere come vuole e questo mi ha dato veramente una bella emozione, una visione diversa e nuovi stimoli per continuare il progetto. Abbiamo un rapporto più sincero fra noi perché ognuno ha cercato di dare il meglio di sé stesso. Abbiamo cercato di farlo capire anche ai nostri compagni che non hanno partecipato e molti vorrebbero avere questa possibilità in futuro».

Sergio Paderi, psichiatra specializzato in problemi di tossicodipendenza e supervisore scientifico del progetto, evidenzia le dinamiche che si sono sviluppate durante questi mesi: «Volevamo costruire un gruppo a più voci, dove le parti e i ruoli venissero messi in crisi, così come le sovra-strutturazioni ed i pregiudizi nei confronti dei detenuti e che i reclusi stessi producono. L’idea era quella di costruire un luogo terzo attraverso l’arte. Si è formata inoltre una rete di relazioni tra soggetti che lavorano stabilmente nel carcere che sta facilitando il nostro lavoro quotidiano. Ho partecipato ad altri laboratori in carcere ma l’innovazione di questo corso è che non siamo noi ad insegnare qualcosa ai detenuti o ad assumere un ruolo diverso dal loro, siamo tutti condotti dall’artista, che ha un ruolo eccentrico rispetto alla vita in carcere e rispetto ai nostri ruoli. L’artista dirige i laboratori e il linguaggio dell’arte, non essendo precostituito, ha costretto ognuno a mettersi alla prova in un processo creativo da dove partiamo tutti alla pari». Il rapporto con l’arte è uno dei temi più sentiti dai detenuti. Benito con semplicità mi spiega: «Mi sono ritrovato in questo progetto senza sapere niente di niente di arte moderna, nuova, contemporanea, morta e ho imparato tanto». Le visite guidate all’esterno hanno rappresentato un momento cruciale per il percorso. «Ho avuto l’opportunità di uscire e di visitare i musei della mia città dove magari passavo davanti ogni giorno senza sapere cosa fossero – ci racconta Guido – prima Sciascia lo sentivo solo nominare, ora lo leggo e so di chi sto parlando; prima non avrei mai avuto né il tempo né la voglia di imparare. Chi sapeva ad esempio chi era Frida Kahlo? Ora lo so da quello che abbiamo studiato, so riconoscere una sua opera. Queste cose sono diventate importanti anche perché ora ne parlo con i miei figli e riesco a capirli, non sono loro che devono capire me».

Alexander aveva già un «Bel rapporto con l’arte ma questo progetto mi ha permesso di capire meglio il prossimo e quale emozione voleva esprimere. In questo ambiente non è facile che uno possa esprimersi al meglio facendo uscire le proprie emozioni. Per poter capire la sofferenza dell’altro, bisogna prima capire cosa soffre e poi immedesimarsi».

I ragazzi continuano a disegnare sulla stoffa la loro personale raffigurazione del tempo che, nella stanza riservata al progetto, trascorre come in una bolla. Silvio mi illustra la sua singolare concezione di arte: «Per me l’arte è amicizia pura, condividiamo tutto con tutti. Nell’arte un singolo soggetto fa una cosa ma alla fine del gioco siamo tutti una cosa sola perché uniamo i pezzi, le cose personali le uniamo per fare una cosa grande e se non c’è amicizia questo non si può fare perché non c’è fiducia; per questo per me l’arte è amicizia». Anche lui mi racconta delle visite ai musei. «La chiave del progetto è confrontarsi con altre persone, cosa che non succede negli altri corsi. Quando c’è un’uscita, mi preparo prima, leggo, mi informo. Durante le visite ci sono delle guide ma noi interveniamo prima di loro, ci sostituiamo quasi agli addetti del museo. È una sensazione bellissima, ora posso spiegare un’opera d’arte anche alle mie figlie. Non ho più paura di dire la mia o di affrontare un discorso su un argomento che non conosco, prima stavo zitto, ora mi butto. Questo gruppo mi ha dato la forza di affrontare qualsiasi cosa».

Longo, come una direttrice d’orchestra, ha condotto i lavori del workshop la cui frase manifesto è «volare per una farfalla non è una scelta». L’artista e performer catanese mi spiega di aver aderito al progetto accettando una scommessa: «Perché ho sempre pensato che il carcere fosse una città nella città e quindi sono entrata in un luogo sconosciuto con persone sconosciute. Non ho mai avuto un’intenzione voyeuristica perché avevo un’idea ben definita del progetto: realizzare delle opere d’arte insieme ad altri in un processo collettivo. Per la prima volta ho dato il mio lavoro in mano ad altri, in questo caso è come se le opere fossero co-firmate da tante persone, oppure sono io a firmare il lavoro di altri che forse è anche più bello da pensare». L’esposizione, costruita dall’artista come un diario di bordo, documenterà, con scritte, disegni e oggetti, il processo artistico che ha trasformato l’esperienza del tempo condiviso in installazioni, video e performance, che funzionano come capitoli di una storia, volutamente in bianco e nero, disseminata negli spazi labirintici di Palazzo Branciforte, attraverso cui rileggere le tappe del progetto.

Con Leone torniamo a parlare delle dinamiche di gruppo: «Mi ha sorpreso l’empatia che si è creata con il gruppo. Questo è un progetto che non ti lascia indifferente. Si sono sviluppati dei rapporti umani intensi, è cresciuto il dialogo e la voglia di aprirsi, di raccontarsi. Uno dei ragazzi ci ha confessato di essersi sentito per la prima volta un soggetto e non un oggetto dei corsi. Ci ha spiegato che qui ha trovato delle persone interessate ai suoi pensieri e questo lo ha fatto sentire libero di esprimersi senza sentirsi giudicato».

Continuità cittadina
Veniamo interrotti dall’arrivo, in visita non ufficiale, del sindaco Leoluca Orlando che si siede con i detenuti per ascoltare i loro racconti e le impressioni sul corso. Anche in questa occasione il dialogo è alla pari. Senza parlarne in modo esplicito, di fatto, si sta già mettendo in atto un’idea rivoluzionaria di carcere. Ne approfittiamo per domandare al sindaco se gli attuali strumenti legislativi sono sufficienti per promuovere programmi simili. «Gli strumenti ci sono, quello che spesso non c’è è la sensibilità culturale di chi deve applicare le leggi – precisa Orlando – Ho spesso ripetuto che l’Ucciardone è Palermo e Palermo è l’Ucciardone. Per noi è normale sostenere queste iniziative, quest’anno ad esempio il carro e la statua di Santa Rosalia sono stati realizzati da undici detenuti che hanno partecipato ad uno dei momenti più importanti della vita della città». La visita si conclude con un pranzo informale di gruppo a base di arancine e pane e panelle.

Le conversazioni continuano: si parla di aspettative, di futuro, del tempo ancora da trascorrere in carcere, di figli. Ci si può sorprendere anche in carcere, come testimonia Guido quando ci confessa visibilmente emozionato che: «Quello che mi ha sorpreso è l’attesa di venire, io attendo questo momento per incontrare il gruppo… l’entusiasmo e la serenità di stare qua anche stando dentro il carcere. Penso che questa sia una sorpresa grande anche per me stesso». Alexander è convinto dell’importanza di far uscire i detenuti ma al tempo stesso crede che anche le persone all’esterno dovrebbero entrare nelle carceri per comprendere la vita da recluso. «È vero che abbiamo commesso degli errori ma molti non riescono a sopportare la galera e vanno in depressione. Basterebbe che chi è fuori vivesse un’ora come la viviamo noi e capirebbe sentire la chiave che si apre, dover chiedere l’autorizzazione anche per avere un foglio su cui scrivere… Dopo aver vissuto un’esperienza simile potremmo dialogare insieme e condividere le sensazioni che hanno avuto, le paure».

Arrivano infine delle proposte per la possibile seconda edizione del progetto. «Ancora non l’ho detto pubblicamente – ci spiega Silvio – ma la mia proposta è di proseguire questo percorso e di inserire anche le nostre famiglie. Per il singolo detenuto è importante partecipare ma sarebbe ancora più bello se loro vivessero questa esperienza con noi, far istruire anche i nostri bambini, sarebbe una cosa fantastica che ci rimarrebbe dentro per sempre. Questo è un posto dove la solitudine ti assale e tendi sempre a tirarti un po’ indietro ma puoi anche sconfiggerla, io l’ho fatto grazie a questo progetto. Ringrazio tutti per avermi dato l’opportunità di andare oltre il carcere, perché l’arte ti porta oltre, sei chiuso qui dentro ma con la mente sei fuori».

La luce che filtra è diventata più calda, il tempo è scaduto ed inesorabile arriva il momento della separazione. Si scatta una foto di gruppo. Ci si abbraccia e ci si scambiano gli auguri di fine anno. Il momento dei saluti si replica ogni volta come un trauma collettivo perché al termine della giornata sembrerebbe ci sia spazio solo per due ruoli: chi rimane dentro e chi è libero. Eppure è proprio in quegli istanti che ognuno intimamente può capire se e quanto il lavoro di gruppo abbia avuto i suoi benefici, poiché, se il viaggio è stato condiviso, ci si allontana fisicamente ma non ci si separa.