Avevo diciannove anni quando a Vienna mi trovai davanti ai quadri di Bruegel. Riconobbi immediatamente le molte minuscole figure dell’incendio della mia infanzia. (…). Provai per essi un’attrazione straordinaria e andavo a rivederli ogni giorno. La parte della mia vita cominciata con quell’incendio proseguiva immediatamente in quei quadri, come se nel frattempo non fossero passati quindici anni. Così Bruegel è diventato per me il pittore più importante di tutti, ma non l’ho acquisito, come tante altre cose più tardi, con la contemplazione o la riflessione. L’ho ritrovato dentro di me, come se mi avesse aspettato già da molto tempo, sicuro che un giorno sarei arrivato a lui».

SCRIVEVA COSÌ Elias Canetti ne La lingua salvata, documentando con maestria attraverso la sua mappa emozionale quella cartografia complessa che segna affinità elettive e corrispondenze magiche.
Lo spirito del visitatore di una mostra come Terra sacra alla Mole Vanvitelliana di Ancona (a cura di Flavio Arensi, organizzata e prodotta dal Comune e dal Museo tattile Omero, fino all’8 maggio 2022) può ancorarsi agevolmente a quelle parole: il vagabondaggio fra le centoventi opere, molte delle quali installazioni site specific presume l’assunzione su di sé di risonanze biografiche. Non certo le proprie ma quelle – collettive – di un territorio che, colpito da un terremoto, non ha interrotto i nessi e i «ponti» della convivenza sentimentale e civile – non a caso il sottotitolo della rassegna fa riferimento all’«Arte necessaria», insistendo poi sulla trilogia concettuale «Luoghi, comunità, esistenze».

DEL RESTO, IL CARATTERE stesso della Mole – quel pentagono pitagorico un po’ esoterico che poggia su un’isola artificiale protesa sul mare – invita ad aprire lo sguardo varcando i confini architettonici per proiettarsi nella natura indomita. Un atto terapeutico di rinascita riassunto anche dall’icona sciamanica di Josef Beuys che aleggia come un’apparizione nella fotografia di Peppe Avallone, incarnando la memoria di un altro sisma, quello irpino del 1980.
Ma la mostra Terra sacra non vuole insistere su un immaginario interrotto dalla catastrofe; preferisce un dialogo che si fa tessuto connettivo fra dimensioni temporali lontane, «spazio» da abitare con formule rituali e propiziatorie. Come quell’azione di Gina Pane nella Valle dell’Orco in provincia di Torino (Pierres deplacées, 1968) in cui l’artista si interrogava sul rapporto con la natura compiendo gesti minimali ma profondamente radicati nell’inconscio, come lo spostare sassi umidi e ricoperti di muschio per orientarli a sud donando loro una nuova vita.
Strutture leggere in legno e dal sapore effimero – quasi scheletri di costruzioni work in progress – «sorreggono» le opere inserite nell’itinerario espositivo, puntellando la Mole di quinte trasparenti che svelano e nascondono. In un controcanto a volte melanconico, altre ombroso, altre ancora incantato quelle opere si fronteggiano, parlando ognuna il proprio linguaggio. In un’unica trama narrativa, divisa per «campi di attenzione», ci sono così i volti offuscati delle Madonne ferite e i corpi scossi delle tarantolate ritratte da Franco Pinna in quella eccezionale spedizione nel Salento del 1959 con l’antropologo Ernesto De Martino. C’è il container di Flavio Favelli trasformato da rifugio precario in uno scrigno alchemico, mentre poco più in là l’Italia è scomposta e ricomposta informa di piccoli haiku visivi da Silvia Camporesi attraverso la sua ricognizione degli edifici abbandonati, atlante dell’evanescenza dei segni urbani lì dove diventano interstizi muti.

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LA SACRALITÀ della terra a cui si ricollega la collettiva anconetana è ribadita da Gregorio Botta: con Orbite, installazione con campane tibetane seminate geometricamente nello spazio. Accolgono i suoni del vento ma si fanno anche ciotole per l’acqua e il nutrimento (spirituale e fisico). Sono allestite nella sezione che guarda ai «senza casa», così come le strisce di Zerocalcare, Macerie prime (2017), che dipingono un mondo di «efferatezze sociali», privo di empatia.
Infine, il filmmaker Alessandro Tesei, che ha raccontato nelle sue immagini Fukushima, sottolinea la mutazione che sta incrociando il nostro presente. «L’esploratore urbano – scrive nel catalogo edito da Skira – non è soltanto un avventuriero, ma un’evoluzione del flâneur, il passeggiatore che non segue i percorsi prestabiliti ma decide di vivere i territorio diversamente».