Silvia Vizzardelli: «Nell’estetica contemporanea si registra una tendenza a considerare il gesto artistico come emblema dell’inazione e dell’inoperosità. Penso alle proposte di Giorgio Agamben e di Jacques Rancière: per loro, la rinuncia al modello volontaristico di azione che lega l’intenzione di un soggetto alla finalità dell’atto, favorisce l’accesso al disinteresse del gesto artistico. Prenderei molto sul serio questa indicazione, peraltro non estranea alla storia dell’estetica, per imprimerle, però, una diversa piegatura. È proprio l’inazione, la decreazione, una sorta di negligenza della vita, ad assecondare il cedimento, lo stacco dell’opera. Potremmo dire, non c’è opera senza rinunzia al possesso, senza abbandono, caduta. Si tratterebbe di immaginare l’inazione nella sua complicità con l’operosità piuttosto che in alternativa ad essa. La psicoanalisi ci aiuta in questa direzione?».

Sarantis Thanopulos: «In Karman, Giorgio Agamben indica il gerere latino, legato al gesto, come terza possibilità tra i verbi greci poiein, l’agire che fabbrica prodotti d’uso (incluse le opere d’arte), e il prattein, l’agire che ha il suo fine in se stesso. Sarebbe l’agire come gesto a rendere inoperose le opere umane, dischiudendole a un loro possibile uso nuovo. Contrariamente a quanto ne pensava Aristotele, credo che l’opera d’arte coincida, in realtà, con il gesto creativo che la fa nascere, non è, semplicemente, il suo prodotto concreto. Tale gesto nel creare, al tempo stesso decrea: cioè non significa distruggere, ma costruire qualcosa che non si chiude nel risultato finale di una concatenazione lineare di procedimenti produttivi. Resta aperto a uno sviluppo laterale, a tante altre evoluzioni, significazioni possibili.

La psicoanalisi lavora in un modo analogo: consente a chi ne fa uso di sospendere la linearità, concretezza del suo agire, fare delle proprie azioni lo spazio sperimentale, non chiuso nei comportamenti fattivi, di un proprio modo originale di esistere».

Silvia Vizzardelli: «Il mio tentativo è invece quello di legare l’inazione allo stacco dell’opera. Il passo indietro nella vita è ciò che consente il deposito dell’opera. Purché non si intenda l’opera come stazione terminale di un processo continuo che muove dall’intenzione soggettiva, bensì come una separazione, una sorta di cedimento di parti di corpo. Lacan, saldando il suo concetto di opera alla questione del godimento, ci suggerisce di leggere l’atto creativo come una consegna vertiginosa di oggetti pulsionali. Qui la produzione d’opera va a braccetto con la decreazione. Potremmo chiederci, con una metafora un po’ ardita: esiste nella vita psichica qualcosa di analogo a quello che sono unghie e capelli per il corpo? Qualcosa che, pur partecipando dell’organico e della vita, si presenti con l’inesorabilità di un oggetto lasciato cadere? Una risposta potrebbe essere questa: esiste, ed è l’opera. Purché la si intenda come l’esito di un taglio e di una resa a qualcosa di non più solubile nella forza trasformativa dell’atto che la produce».

Sarantis Thanopulos: «Per te l’opera d’arte viene dall’inazione nel senso della sostituzione dell’agire produttivo con lo stacco, il lasciar cadere, come se fosse morta, una parte di sé, invece di renderla operosa. Per me creare è separare il movimento creativo dal creato, più precisamente lasciar cadere il creato fuori dalla propria compiutezza in un movimento di vita che mentre lo compie, lo mantiene incompiuto, aperto alle trasformazioni. L’opera d’arte sarebbe l’oggetto che «muore» come cosa concreta, per poter esistere come processo trasformativo che disloca la posizione e visuale nel mondo di chi entra in rapporto con esso. Un pezzo di vita che si stacca dal nostro narcisismo per poter vivere come potenzialità nella relazione con gli altri».