C’è un brano di neppure due minuti nel nuovo album di Sascha Rings in arte Apparat, si intitola Means of Entry («dispositivo di ingresso») ed è un piccolo bozzetto sonoro confezionato con il suono di un pianoforte cui si avvinghiano sibili digitali, qualche beat sconnesso, poco di più. È un frammento significativo dell’arte combinatoria di questo artista berlinese che dopo avere frequentato ad inizio carriera le arene del dancefloor e le classifiche techno, ha poi virato verso sonorità più stratificate e dense, orizzonti complessi che certificavano un’esigenza e una consapevolezza via via sempre più chiare: «A un certo punto mi sono reso conto di essere più interessato a disegnare suoni piuttosto che semplici beats».

PRESO ATTO molto presto di questa propensione, Apparat ha iniziato a confezionare avventure produttive sempre più sofisticate e diversificate, incarnando la filosofia dei «dispositivi di ingresso» con una serie di produzioni per il cinema (i film di Mario Martone Il giovane favoloso e Capri Revolution), per il teatro (raccolti in un album Krieg Und Frieden – Music for Theatre), la televisione (un suo brano, Goodbye, è diventato perno sonoro della serie Breaking Bad).

Nel frattempo ha continuato a macinare con cadenza non compulsiva le sue proposte discografiche. Per questo venerdì scorso Apparat è arrivato a Roma a chiudere il calendario di Rock in Roma e dei live della Cavea dell’Auditorium (un calderone di appuntamenti che aveva già proposto almeno un paio di artisti per certi versi affini al Berlinese: The Cinematic Orchestra e Thom Yorke). LP5 è il primo album post-Moderat (la allstar tutta berlinese che metteva insieme Modeselektor e Apparat) ed è una conferma del talento di questo fertile producer che parte quasi sempre dalla voce e dal pianoforte per definire la struttura e il mood dei suoi brani.

Una tattica quest’ultima applicata con minore determinazione a Roma, dove pure, egregiamente affiancato dai versatili Jörg Waehner, Philipp Thim, Christoph Hamann, Christian Kolhaas, Apparat non ha lesinato i momenti di quiete, le atmosfere ambient, le dissolvenze e i sussulti solo accennati, spesso rarefatti. Anche dal vivo, così come nel suo ultimo album, si sono fatti davvero rari i tracciati con la cassa dritta e le deflagrazioni ritmiche frequentate quasi tre lustri fa con la sua amica Ellen Allien nell’album Orchestra of Bubbles.

PARTERRE della Cavea stipato, spalti superiori quasi deserti per esplicita scelta di Rings che non voleva un’audience da «teatro», il set ha messo in mostra un sapiente uso delle dinamiche e una sorprendente quantità di opzioni strumentali (tutti suonavano tutto e si disimpegnavano tra chitarre e bassi elettrici, mandolino, trombone, violino, violoncello, tastiere, batteria). Vedere un musicista elettronico come Apparat imbracciare per tutto il concerto una Telecaster e un mandolino faceva una certa impressione eppure, mentre sciorinava quasi l’intera scaletta del nuovo album alternando i brani a qualche perla del vecchio repertorio (Fractales pt.1 da Walls, Circles da DjKicks, Black Water e You Don’t Know me da The Devil’s Walk), nessuno provava nostalgia del muro digitale di un tempo. Le connessioni EBM non sono mancate, il concerto (fatto salvo l’ultimo bis) ha un impianto e una struttura che si è innestata sempre sulle pulsioni delle «macchine», ma Sacha Rings ha dimostrato di voler superare continuamente quella griglia, dal vivo ancor più che nel tracciato dell’album.

C’ERA POI la voce del leader, che più di Thom Yorke ha ricordato il falsetto angelico di Jonsi dei Sigur Ros. Un timbro soffice e straniante, che ha regalato alla musica di Apparat un’ulteriore spinta psichedelica. Una voce capace di appoggiarsi sulle stratificazioni degli strumentisti con grande naturalezza e con l’efficacia di un piglio timbrico inconfondibile. La carezza e il pugno, le sezioni d’archi e le schitarrate, il pianoforte e il trombone urlante…A pensarci bene, anche questo si è rivelato un magnifico «dispositivo di ingresso».