Se ne è andato, con la discrezione e il riguardo di sempre, uno degli ultimi grandi attori. E noi spettatori possiamo immaginarci un ultimo, consapevole guizzo di quelli occhi insieme furbi e generosi. Gianrico Tedeschi è morto lunedì, nel suo «buen retiro» sul lago d’Orta dove da anni si era ritirato con la famiglia, e dove l’aprile scorso aveva festeggiato il suo centesimo compleanno. Un attore eccellente e poliedrico, ed un uomo straordinario. La scelta artistica e quelle della sua vita fuori e prima del palcoscenico, erano strettamente connesse, e lui non mancava l’occasione di rivendicarle, ancora fino a un pugno di anni fa, quando ha continuato a recitare e rilasciare interviste.

NATO nel cuore di Milano («in una casa di ringhiera» precisava fiero) aveva scoperto l’arte dell’attore assistendo a spettacoli dei grandi interpreti «all’italiana» come Ermete Zacconi, e vi si era appassionato, mentre continuava a studiare. Poco più che ventenne, era stato costretto ad arruolarsi per la guerra, e fu mandato dalla grandeur del duce a conquistare la Grecia. Col risultato che dopo l’otto settembre però, Tedeschi si rifiutò di aderire alla repubblica di Salò, e fu internato dai nazisti, assieme ai suoi colleghi ufficiali antifascisti, in tre successivi campi di concentramento. Lì il suo antifascismo divenne radicale, in mezzo ai compagni di prigionia (tra i quali Giovanni Guareschi, il futuro rettore della Cattolica Lazzati e il futuro segretario del Pci Alessandro Natta). Coltivando la sua personale passione, Tedeschi cominciò a organizzare delle rappresentazioni teatrali. E in quelle, aveva poi confessato, individuò il modo migliore per resistere all’oppressione: un esercizio dell’arte che realizzava altri mondi possibili rispetto a quell’orrore del lager cui era costretto, una via di fuga concreta e quotidiana dalla morte. Una esperienza così forte che ha portato nel cuore per sempre. Raccontava un suo compagno di sventura nel lager, che Tedeschi, attore ormai molto famoso, ogni volta che passava dalla sua città in tournée, lo chiamava per incontrarsi e riabbracciarsi.

DEL RESTO lo ha raccontato molto bene lui stesso questo intreccio di vita reale e artistica, nella densa intervista biografica che lungo gli anni ha realizzato con lui sua figlia Enrica, pubblicata poco tempo fa da Viella con un titolo in cui lui stesso si definisce, come sempre con molta misura: Semplice, buttato via, moderno. Il ‘teatro per la vita’ di Gianrico Tedeschi. E dopo quell’esperienza atroce dei lager, tornato a casa puntò dritto al teatro, per trasformare e concretizzare quella sua passione. Incrociando immediatamente dopo Giorgio Strehler che aveva appena fondato il Piccolo teatro. Col regista avrebbe dato presto prove importanti (Pantalone nell’Arlecchino, Peachum nell’Opera da tre soldi). E del resto ha lavorato poi con i massimi maestri del teatro, da Luchino Visconti a Luca Ronconi.

Col primo una famosa Locandiera dove gareggiava con Mastroianni, col secondo un’esperienza recente, una decina di anni fa, quasi a coronamento di una carriera, nel crudele ritratto di un patriarca capitalista nella Compagnia degli uomini di Edward Bond. Lui stesso aveva raccontato in una intervista: «Una cosa felice, gioiosa: dopo tanti anni mi sono incontrato con Ronconi. Condividevamo dei ricordi molto lontani, appena usciti dall’Accademia d’arte drammatica, ci siamo ritrovati dopo tanti anni e per me è stato un incontro meraviglioso, sotto tutti gli aspetti, perché lo ritengo veramente un maestro. Io ho rivissuto lì con grande emozione il momento del Piccolo teatro con il quale praticamente ho cominciato. Per la verità, io non ho cominciato ufficialmente col Piccolo… perché non nasceva mai, Strehler e Grassi non riuscivano a farlo nascere, ma facevano teatro in tutti i modi. Paolo Grassi ci metteva su un camion e andavamo a fare spettacoli nelle fabbriche intorno a Milano, pur di far teatro. Io impaziente, non ho aspettato, sono andato a Roma a fare l’Accademia, e lì ho conosciuto Ronconi: abbiamo fatto anche una piccola cosa insieme e quindi ritrovarsi è stato per me molto bello, e la cosa più importante è che me lo sono trovato che era diventato un maestro. E durante le prove io ho imparato, e anche faticato, ed è stato un momento molto bello».

MA TRA GLI ANNI dell’Accademia e il ritorno al Piccolo, Gianrico Tedeschi ne ha fatto davvero tante di esperienze, tutte coronate da successo: dal varietà con Anna Magnani alle commedie musicali con Delia Scala, alla commedia sofisticata made in Broadway (Luv di Schisgal), con Franca Valeri e Walter Chiari, e certi testi che apparivano allora scombinati ed erano già quelli «dell’assurdo». Fino alle Ultime lune di Bordon in cui diede proprio la staffetta simbolica a Mastroianni. E nel frattempo aveva lavorato con attori già per lui mitici, da Ruggero Ruggeri a Andreina Pagnani. E in tv con Cochi e Renato, e alla radio in Gran Varietà. E negli anni decine e decine di apparizioni indimenticabili al cinema, dal Federale di Salce a Festa Campanile e Steno, ma anche Pietrangeli e perfino Rossellini per l’episodio di Rogopag.

È STATO un attore completo e multiforme, coerente e sempre nuovo, discreto ma dallo sguardo graffiante, sempre generoso senza mai ‘buttarsi via’. Un grande personaggio, un maestro della scena del novecento, che sapeva conquistare anche il mercato: fama universale gli diedero certi suoi irresistibili caroselli, sempre per peccati di gola, e soprattutto per «la caramella che mi piace tanto». Impossibile resistergli, come davanti alla coerenza e al coraggio di attore e di persona.