Si conclude oggi, con una grande serata di danza dedicata al Gulbenkian Ballet, il 32° festival di Almada. E bisogna dire subito l’impressione che, rispetto a tanti altri festival europei (per non parlare degli italiani) che fatalmente non riescono più a nascondere il loro essere in buona parte decotti (semplici passerelle di spettacoli che saranno in circuito la prossima stagione, o fuochi fatui di scarso interesse), la manifestazione portoghese è sempre più un grande festival nazionale, con un progetto e una lucidità davvero ammirevoli. Sicuramente è merito del giovane Rodrigo Francisco, che da due anni ha preso la direzione alla morte del fondatore Joaquim Benite, mantenendone il retaggio ma mettendo a punto molti aspetti delle scelte artistiche. E riuscendo perfino a ottenere qualche miglioramento finanziario dalla municipalità di Almada, una delle poche che mantiene ancora gloriosamente la bandiera di sinistra, e esplicitamente ammette di considerare la cultura un terreno privilegiato di investimento, come i trasporti o i servizi sociosanitari.

 

 

La città «dormitorio», che solo il Tago e il maestoso Lusoponte separano da Lisbona, continua a offrire al festival, oltre ai finanziamenti, sempre nuovi luoghi, strutture o angoli che possano farsi palcoscenico, che poi la direzione artistica popola di concerti, letture o veri spettacoli.
A Almada 2015 arriva così dall’Europa (come da altri continenti) la ricerca dei nuovi linguaggi, ma sempre ben calibrata rispetto alla presenza dei maestri storici. Perfino Luca Ronconi aveva promesso una sua presenza, se non quest’anno l’anno prossimo… Ma di certo è arrivato Peter Stein: non solo con il suo bel Ritorno a casa di Pinter, ma proprio lui di persona, a tenere un seminario con giovani allievi attori. E grande attenzione e risonanza ha ricevuto il «mostro sacro» della scena lusitana, Luis Miguel Cintra, attore di Oliveira e regista di grande vaglia teatrale, che quest’anno aveva preparato per il festival un suo possente Amleto.

 

 

Ma ci sono state presenze ancor più curiose, se si vuole. É tornato ad Almada il regista tedesco Matthias Langhoff,che con Cinema Apollo (scritto assieme a Michel Deutsch) ha lavorato su un possibile nuovo finale del romanzo di Alberto Moravia Il disprezzo, partendo dall’angolo visuale che Jean Luc Godard ne diede nel suo film. La sorte (ma forse no) ha voluto che alcuni giorni prima andasse in scena allo stesso festival, una serata del Berliner Ensemble, che ha suscitato nel pubblico entusiasmo e commozione: Cambiano i tempi, ovvero le canzoni di Bertolt Brecht musicate da Dessau, Weill, Eisler…

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Regista dello spettacolo (nonché interprete e cantante) Manfred Karge, cosa che raddoppia la commozione, visto che Karge e Langhoff più di trent’anni fa firmarono insieme, e fecero conoscere in Europa, i primi testi di un drammaturgo divenuto poi fondamentale come Heiner Müller, a cominciare dal lancinante Medea Material, che mostrava l’eroina tragica offrire a Giasone i cadaveri dei figli sotto forma di carne in scatola. Ma quelle presenze storiche rappresentano ad Almada la memoria del teatro e il suo poter di emozionare sempre, e non certo la nostalgia.
É significativo semmai che diversi titoli raccontassero in maniera scenica la storia recente delle realtà da cui gli attori provengono. Dallo stabile di Cluj-Napoca, nel cuore della Transilvania, un testo di Matei Viniec, Lo spettatore condannato a morte, riproponeva in chiave grottesca gli orrori e l’insensatezza della Securitate di Ceasescu, i suoi sospetti e le sue miserie. La stessa compagnia poi ha offerto un bel Giardino dei ciliegi, con cui il nostro Roberto Bacci rilegge in maniera aggiornata quanto «cechoviana doc» un testo che aveva realizzato molti anni fa con tutt’altra forma.

 

 

Questo Giardino arriverà anche in Italia, alla Pergola in autunno, e sarà curioso vedere per il pubblico italiano il recupero della tradizione da parte di uno dei più intransigenti terzoteatristi di scuola barbiana e grotoskiana. E sempre nel comparto del teatro di memoria, un giovane gruppo portoghese ha offerto una lettura di grande successo di pubblico, Un museo vivo di piccole memorie, sulla fine della dittatura di Salazar e sull’entusiasmo del 25 aprile, con tutti i problemi che avrebbe comportato dopo.

 

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Molto interessante è stato anche lo zoom sulla nuova scena spagnola, una rassegna nella rassegna piena di differenti stimoli. Grande successo popolare ha riscosso La tempesta shakespeariana presentata dai galiziani Voadora: una rivitazione spregiudicata, tra musical e body building, effetti sonori e travesti piuttosto divertente, a cominciare dall’apertura di sipario, che racconta il prodigio che dà il titolo al testo, sulle note swing di Stormy Weather in versione piano bar.

 

 

Ma a parte questi simpatici eccessi, la ricerca iberica offre promesse di un certo interesse. Perfino i testi scandinavi classici del teatro borghese, si rivitalizzano qui anche in versioni spericolate, come quella Signorina Giulia in versione Schaubühne, che Katie Mitchell e Leo Warner, forse in un eccesso di zelo alla linea Ostermeier, lasciano a metà tra lo spettacolo e le riprese di un film. O come La donna del mare che i brasiliani diretti da Paulo de Moraes rinchiudono in una sorta di acquario attorno a cui sviluppare tensioni e tradimenti.
Ma tutta l’Europa, vista da Almada, sembra più vitale (a inaugurare era stato Marthaler con il suo King size). Forse è la risposta del publico portoghese, spesso entusiasta, a dare ancora speranza all’arte antica dell’attore, e alla sua funzione civile, oggi come ieri.