Impossibile in queste ore essere lucidi scrivendo della morte di Ferdinando Bologna. Chi ha avuto la buona sorte di averlo come maestro, parola che sornionamente rifiutava, misura da un lato una mancanza che non sarà più colmabile, umana, culturale, metodologica, dall’altro lo smisurato, quasi impossibile, impegno a mantenere viva e praticabile la sua lezione. A questo si aggiunga la difficoltà di racchiudere in un ricordo l’impressionante mole dei suoi libri, articoli, contributi, lectio, sapendo che di ciascuno di questi se ne vorrebbe far menzione vista la dirimenza del suo lavoro.

NATO A L’AQUILA nel 1925, una carriera lunghissima, fino agli ultimi mesi, che lo ha visto sempre testimone, lui ragazzo di quegli anni cruciali del dopoguerra, di quella necessità bruciante di tenere insieme ricerca scientifica e tutela del patrimonio storico artistico, insegnamento (nelle università di Messina, Napoli, Roma) e impegno nella riorganizzazione museale (Museo nazionale di Capodimonte). Cominciò nel 1947 con la laurea con Pietro Toesca.
«Per Toesca bisognava osservare e comprendere l’arte in ogni suo momento, in ogni sua opera, perché ciascuna ha un proprio valore come espressione estetica perfetta in sé stessa; bisognava però, al contempo, ritrovare i rapporti intercorrenti, tra quelle espressioni, ricostruire la continuità di quelle vicende, che è il compito di questi studi». Così scriveva Bologna, scrivendo del suo maestro ma forse scrivendo un po’ di se stesso.

Seguì la conoscenza e la collaborazione stretta, intensa, ma non sempre facilissima con Roberto Longhi, di cui, però, mai dimenticò quella frase che ripeteva spesso a lezione «L’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto». La fondazione, sempre con Longhi e con un gruppo di formidabili ragazzi, di una rivista fondamentale come Paragone. E poi la borsa di studio presso quell’Istituto italiano di studi storici, istituito da Benedetto Croce nel 1946, che non amava molto gli storici dell’arte e in cui pure Bologna riuscì ad entrare.

DA QUESTA ESPERIENZA, dalla longhiana specificità dei linguaggi artistici e dal continuo rovello su come far lavorare in un unico ingranaggio foriero di senso l’ammodernamento critico dello storicismo crociano e la critica marxista, in particolare nella declinazione del sempre tenuto a portata di mente Benjamin, nacque un’attenzione particolare, che segna come un fil rouge tutta la sua bibliografia, per come si studia la storia dell’arte, per come si tracciano i macrofenomeni al fine di usarli come coordinate per la comprensione di singoli, ma non meno importanti, episodi.
Da questi interrogativi nascono opere come Dalle arti minori all’industrial design. Storia di una ideologia (1972), I metodi di studio dell’arte italiana e il problema metodologico oggi, nella «Storia dell’arte italiana» di Einaudi (1979), La coscienza storica dell’arte d’Italia (1982).
Ma per Ferdinando Bologna ogni opera, ogni artista andavano collocati in panorami tanto grandi quanto precisissimi, mai tratteggiati, e in quel panorama sempre si riproponeva un problema critico più ampio.

LA STORIA DELL’ARTE non poteva essere nei suoi studi la storia dello spirito o della libertà rimandati a un orizzonte astorico, non è storia di isolati geni. È storia di uomini e donne, di rapporti di forza, di politica, è storia di lavoro, di mani e di idee immersi nella storia e che se disgiunte ammutoliscono entrambi. E va indagata con suoi, specifici strumenti. Tale è sia in Duccio che negli anonimi maestri che portarono in luoghi remoti dell’Abruzzo le più raffinate novità del Gotico d’Oltralpe. Tale è sia in Simone Martini sia nei maestri del soffitto dello Steri di Palermo. Tale è in Giotto e nel fluire di grandi maestri e straordinarie botteghe della Napoli angioina.

È così tra i moltissimi artisti che dalle Fiandre, da ogni parte d’Italia e dal Mediterraneo, inteso come grande, indispensabile e continuo bacino di creazione e scambio di culture, arrivarono a Napoli per costruire la città aragonese. È così tra quel «rinascimento umbratile», per dirla come Longhi, che lo trovò tra i suoi amati artisti abruzzesi, Silvestro dell’Aquila, Andrea Delitio, Saturnino Gatti, la sua ultima fatica. È così in Caravaggio, incredulo come Tommaso delle cose del sacro, ma che di umanissima religione riempì le «cose naturali».
Ecco, la «cosa tenuta sempre davanti» che diceva Caravaggio è stata per Bologna il valore altissimo, culturale e morale, che deve avere la storia dell’arte. «Perché maestro? Non basta essere un professore?», diceva. Sì, in rarissimi casi è sufficiente.