L’affanno mediatico che governa la Croisette è perfetto per Lars von Trier «riabilitato» sette anni dopo le dichiarazioni simpatizzanti su Hitler che l’avevano reso «persona non grata». Ed ecco che già prima del suo arrivo, ieri fuori concorso con The House that Jack Built del quale quando saremo in edicola si saprà già tutto, visto l’«Hunger Games» digitale in cui la nuova griglia ha trasformato il lavoro qui, è esploso lo «scandalo». I primi commenti sul film parlano di almeno cento persone scappate dalla sala disgustate, l’affaire monta, diventa il caso del giorno. Strategia promozionale impeccabile.

Che von Trier si diverta a prendere in giro lo dice lui per primo, tutti i suoi film appaiono come astute macchine pensate per incantare lo spettatore, chi naturalmente decide di sottostare alle regole (tutte del regista) gridando al capolavoro o all’indecenza. The House that Jack Built non si sottrae a questo, del resto come potrebbe? Si parla di Jack lo Squartatore, anzi di una sua rilettura in cui diventa Mr.Sophisticated (Matt Dillon, bravissimo) che ripercorre le proprie imprese di assassino seriale con ambizioni d’artista nel racconto, diviso in capitoli, a un enigmatico interlocutore, Verge, una sorta di coscienza che lo mette davanti ai suoi deliri (è Bruno Ganz) e al tempo stesso lo lascia libero di agire.

Ingegnere che vorrebbe essere architetto con «tipica» ossessione per la pulizia, Jack vede nel gesto omicida l’ordine contro il caos, mettendo le sue vittime in posa per fotografarle in sovraesposizione. Intanto fa e disfa la sua casa che non trova una forma, come la sua testa, e ha bisogno di un materiale umano per essere finita.

Ogni ammazzamento offre lo spunto per una dissertazione sull’arte e per il suo potere trasgressivo a cui fa da contrappunto l’immagine di Glenn Gould al pianoforte. Il primo cranio spaccato (di Uma Thurman) donna insopportabile – quelle che dici beh certo se l’è cercata – sfuma in un disegno cubista, seguono strangolamenti, tette tagliate, bambini impallinati secondo le teorie della caccia, bellezza e mostruosità, la tigre e l’agnello, le vittime (gli spettatori?) in fondo sono stupide, questo è il loro problema.

Jack c’est moi, inteso come von Trier? Fin troppo evidente in questa «Divina commedia» che ripercorre dell’esperienza artistica dell’autore, da Le onde del destino – di cui riprende l’oscillazione «dogmatica» della macchina da presa – a Nymphomaniac, lui, sempre lui, il regista con le sue «provocazioni» che vorrebbero smascherare il mondo del «politicamente corretto» – «le donne sono vittime noi uomini dobbiamo sentirci sempre colpevoli» – l’ipocrisia, l’indifferenza del contemporaneo esaltando la bellezza del male. L’altro, l’esterno, chi guarda non ha spazio, lui agisce e si risponde. Un circuito impermeabile di autoritarismo ma «scandalizzare» è proprio il contrario.