Nel gennaio 2021 Twitter e Facebook, tra gli altri, bloccarono gli account dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in occasione dei fatti di Capitol Hill e a seguito di un breve intervento video del tycoon. L’evento produsse una valanga di commenti che si dividevano più o meno in due categorie: chi riteneva che la scelta dei social, per quanto comprensibile, fosse sbagliata perché lesiva della libertà di espressione; chi riteneva invece che fosse corretta, perché i messaggi falsi e incitanti all’odio di Donald Trump non avrebbero dovuto avere legittimità né a livello pubblico, né a livello dei social media.

AL DI SOTTO di queste posizioni, ristagna la domanda delle domande: i social sono uno spazio pubblico, pur essendo gestiti da aziende private? E in che modo gli Stati possono fare applicare le proprie leggi anche a loro? E, infine, in che modo limitare i messaggi che inneggiano all’odio senza ledere la libertà di espressione? Si tratta di temi fondamentali per la natura politica delle nostre democrazie e sono i temi sui quali si interroga David Kaye in Libertà vigilata, la lotta per il controllo di Internet (Treccani, 2021, traduzione di Francesco Graziosi, prefazione di Enrico Pedemonte, pp. 163, euro 18).
Kaye, però, non è un osservatore qualunque di questi temi perché oltre a essere docente di Legge alla University of California, ha anche collaborato con le Nazioni Unite, redigendo rapporti e ricerca su questi temi. La sua posizione al riguardo è piuttosto chiara: da un lato Kaye ritiene sia giunto il momento di regolamentare le piattaforme attraverso leggi anti trust, procedendo dunque a un loro smembramento. Dall’altro – come afferma nelle conclusioni del volume – ritiene che «in teoria, le regole che governano l’espressione per lo spazio pubblico dovrebbero essere create dalle comunità politiche, anziché da compagnie private, sottratte al controllo e alla responsabilità democratici». I governi, inoltre, secondo Kaye hanno già gli strumenti per spingere le compagnie ad agire contro i contenuti che, a loro avviso, violano le leggi del paese: non dovrebbero essere dunque affidate alle piattaforme nuovi strumenti per intralciare i diritti degli utenti.

KAYE DUNQUE, dopo aver raccontato in modo davvero dettagliato il funzionamento dei meccanismi di moderazione e delle policy rispetto alla rimozione dei contenuti, di alcune delle piattaforme più importanti, riporta l’esigenza di regolamentare le grandi aziende all’interno di una dialettica politica, nella quale abbia voce in capitolo anche la società civile. Idea condivisibile, ma che non tiene conto di alcuni fattori. Intanto le piattaforme non hanno alcuna intenzione, come ampiamente dimostrato, di voler rendere trasparenti i propri meccanismi di moderazione (ed eliminazione) dei contenuti. Questo perché la moderazione ha sempre a che fare con la forza commerciale dei Big Data: anche le rimozioni di contenuti o certe policy, hanno ricadute commerciali per società il cui scopo non è creare uno spazio pubblico, quanto guadagnare sui dati raccolti dalle interazioni degli utenti. I governi, dal canto loro, procedono con forme più o meno annacquate di censura, a secondo del colore politico di chi governa, senza scomodare gli affari di colossi che possono sembra rivelarsi utili (vedi il caso di Cambridge Analityca).

IL LIBRO di Kaye è utile per comprendere alcuni meccanismi e provare ancora una volta con mano a delineare l’immensità delle piattaforme e dei mondi che creano. Ma non esce da una logica tutta interna al capitalismo di cui gli aspetti più securitari e di sorveglianza – così come quelli relativi a contenuti contrari a dettami costituzionali – non costituiscono un’eccezione, bensì un suo aggiornamento. Le logiche dietro le piattaforme (e parliamo di lavoro, di etichettatori, moderatori, softwaristi, ecc) e la loro volontà di controllare anche le opinioni di chi utilizza i propri prodotti è perfettamente inserita nelle logiche produttive e di «governance» di quello che Shoshana Zuboff ha chiamato «capitalismo della sorveglianza». Al contrario di quanto ritiene Zuboff e in parte Kaye, questi meccanismi, riassumibili in una sorta di tracotanza delle piattaforme che aspirano a farsi «Stato» quando non «Impero», cioè a dotarsi di capacità «politiche» anche creative, non sono riformabili dal sistema liberale, perché ne sono anzi una parte fondamentale, anche qualora venissero regolamentate.
Una vera rivoluzione sarebbe colpire le piattaforme dove potrebbe fargli più male, ovvero in una gestione davvero pubblica, trasparente, dei dati e dei loro utilizzi. Fino ad allora si tratterà di «sistemazioni» all’interno di un impianto che convive perfettamente, all’interno del balletto tra autorità statali che utilizzano o subiscono soggetti privati che creano un proprio spazio di sovranità, benché apparentemente solo virtuale.